Feb 24 2020

Tra “Sindaco d’Italia” e presidenzialismo, qui serve una Costituente per una nuova Repubblica

Riceviamo da Mario Bozzi Sentieri e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore,

Secondo la Noto Sondaggi più della metà degli italiani è favorevole all’elezione diretta del capo del governo.  La rilevazione è stata fatta sull’onda della proposta di riforma costituzionale lanciata da Matteo Renzi. Quella di Renzi sul Sindaco d’Italia è un po’ la scoperta dell’acqua calda. Nel senso che l’idea, nella quale si riconosce la maggioranza del popolo italiano, non è proprio una novità, ma appartiene, da sempre, al riformismo costituzionale di destra (Carlo Costamagna parlava di Repubblica presidenziale già nell’ottobre 1946, su Rivolta Ideale) ben rappresentato, oggi, da Fratelli d’Italia, che, non a caso, nell’ultimo fine settimana, ha lanciato la sua campagna di raccolta firme a favore di quattro proposte di legge di iniziativa popolare, tra cui appunto quella per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Sul fronte dei contenuti non c’è partita: la riforma istituzionale è una necessità e gli italiani ne sono ben consapevoli. Più complessa la questione “di metodo”. L’annuncio, oggettivamente strumentale, di Renzi sul Sindaco d’Italia può aprire la stagione delle riforme? Ci sono le condizioni per un fronte politico trasversale che si faccia carico della volontà riformatrice ? E può bastare una proposta di legge d’iniziativa popolare, da portare all’attenzione del Parlamento, per sbloccare finalmente gli arrugginiti ingranaggi istituzionali del nostro Paese?

La lunga storia delle riforme incompiute

Nel passato ci aveva provato, sul finire degli Anni Settanta, Bettino Craxi, con l’idea della Grande Riforma. Prima di Craxi, Randolfo Pacciardi, mitica figura dell’antifascismo repubblicano, aveva dato vita, nel 1963, al movimento Unione Democratica per la Nuova Repubblica, fortemente caratterizzato in senso presidenzialista. Nel 1968 era toccato a Bartolo Ciccardini, con il suo gruppo, di “gollisti democristiani”, Europa Settanta. Giorgio Almirante della Nuova Repubblica aveva fatto la bandiera della destra degli Anni Ottanta. Il professor Gianfranco Miglio, nel 1983, aveva riunito una serie di esperti di diritto costituzionale ed amministrativo, arrivando a produrre un organico progetto di riforma della seconda parte della Costituzione. Di premierato aveva parlato, nel 2005, anche Silvio Berlusconi.

Nessuno però è riuscito a passare dalla fase della proposta a quella dell’effettiva iniziativa riformatrice. Anche oggi gli scenari non sembrano molto diversi. Come ha sottolineato Giovanni Orsina, politologo e direttore della School of Government alla Luiss, in un’intervista a Il Giornale, a mancare sono proprio i partiti che «hanno perso la loro forza e non si possono rianimare con lezioni di ingegneria costituzionale: le riforme, quelle vere, rimangono al palo perché manca il tempo per portarle a compimento e perché nessuno ha la forza per imporle». Stigmatizza sempre Orsina: «Il sistema deve essere riformato per la sua debolezza, ma è troppo debole per riformarsi»Che fare allora? Fermarsi, come nel passato, alle buone intenzioni o provare ad andare oltre?

La soluzione dell’Assemblea Costituente

Il già ricordato Costamagna, settantacinque anni fa, poneva l’accento su un fatto, solo in apparenza scontato: «Promuovere l’interesse del Popolo all’opera del proprio ordinamento costituzionale parrebbe il compito più degno del costume di una “vera” democrazia». Da dove partire allora per ridare dignità ai costumi democratici e voce a quel popolo che – sondaggi alla mano – vuole l’elezione diretta del presidente della Repubblica? Non ci sono risposte facili. Ma perché non pensare ad un’ipotesi di lavoro, tanto trasversale quanto provocatoria, come l’elezione/convocazione di un’Assemblea Costituente?

La proposta di un’Assemblea Costituente appare la strada più immediata, in grado di rispondere alle evidenti questioni di metodo e di contenuto: un’Assemblea eletta con il sistema proporzionale, frutto di un chiaro confronto programmatico, e con un mandato temporale ben definito (sei mesi), che possa elaborare un progetto di riforma organico e condiviso. Alle diverse forze in campo di fare le loro proposte e di verificarle con l’opinione pubblica. Ciò renderebbe finalmente palesi i diversi orientamenti, obbligando i rispettivi schieramenti  a scoprire le carte sui grandi temi “sensibili” del presidenzialismo, del sistema elettorale, del bicameralismo, del rapporto tra i poteri dello Stato, del vincolo di mandato, del decentramento amministrativo, con il conseguente coinvolgimento dei cittadini-elettori, resi finalmente partecipi di un essenziale passaggio politico-istituzionale per la vita del Paese.

Il nodo della rappresentanza e delle competenze

L’elezione/convocazione di un’Assemblea Costituente non è, tra l’altro, in contrasto con eventuali elezioni politiche generali. Può anzi precederle, rimarcando, in modo chiaro, l’idea della riforma costituzionale, ma tenendola ben distinta da un confronto sui programmi, sull’azione di governo, sui grandi temi dell’emergenza economica e sociale. Importante è uscire fuori dalle dichiarazioni ad effetto. Il tema della rappresentanza e delle competenze è un tema troppo serio per ridurlo ad un tweet, lanciato, come un tricchetracche, per fare un po’ di rumore ed attirare l’attenzione, ma niente di più.

di: Mario Landolfi @ 18:24


Feb 16 2020

Alemanno: bravo Veltroni su Ramelli, ma c’è il rischio che gli antifascisti si armino contro di noi

Alemanno parla di Sergio Ramelli, e si rivolge a Veltroni che lo ha ricordato. “Parlare non solo del clima d’odio di quegli anni, ma cercare di analizzare l’odio che sta montando nel nostro presente”. E’ quanto chiede Gianni Alemanno a Walter Veltroni, dopo l’intervento del fondatore del Pd in ricordo di Sergio Ramelli, militante del Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del Msi, ucciso a Milano nel 1975 da estremisti di sinistra.

Alemanno: Veltroni alle parole faccia seguire i fatti

“I morti di quegli anni – ha scritto Veltroni sul Corriere della sera – non devono oggi essere rivendicati, scagliati, usati per protrarre l’odio, che è una patologia: quegli anni sono stati un’epidemia di questo male”. Alemanno apprezza che “Veltroni ha ricordato il sacrificio di Sergio Ramelli, descrivendo con attenzione il clima d’odio anti-fascista che fu l’alibi per quell’assurdo omicidio. Non è la prima volta che Veltroni dice parole di verità e compie atti di giustizia per tentare di rimarginare le ferite degli anni di piombo. Quando era sindaco di Roma – ricorda – portò le corone di fiori del Comune in tutti i luoghi cittadini dove erano stati uccisi ragazzi di Destra come di Sinistra, sostenne un’associazione che ricordava i fratelli Mattei, intitolò a Paolo Di Nella uno dei viali di Villa Chigi. Questo è molto importante, le tante cose che ci dividono politicamente da Veltroni non possono fare velo a questo giusto riconoscimento”.

Però, aggiunge Alemanno, anche lui ex sindaco di Roma, “gli chiediamo uno sforzo ulteriore. Parlare non solo del clima d’odio di quegli anni, ma cercare di analizzare l’odio che sta montando nel nostro presente. Oggi l’antifascismo militante è tornato di moda. E si moltiplicano i casi in cui si cerca di impedire a esponenti politici di destra o leghisti di esprimere le proprie idee. Addirittura al punto che si è tornato a negare il dramma delle foibe”.

Il rischio è che l’odio antifascista ritorni

Prosegue Alemanno: “Ieri, l’accusa e l’alibi per la violenza era di coltivare progetti golpisti, oggi è quella di alimentare chiusure xenofobe. Ma il risultato è lo stesso: la destra non ha diritto di parola e le sue idee devono essere demonizzate”. Certo, osserva, “non siamo alla violenza efferata degli anni di piombo. Ma a furia di demonizzare l’avversario, siamo sicuri che qualche esaltato non finisca per prendere in mano anche oggi la spranga o la pistola? Coraggio, non piangiamo solo gli errori del passato, evitiamo quelli del futuro”.

di: Antonio Pannullo @ 17:41


Feb 09 2020

Paolo Di Nella, 37 anni fa l’ennesimo omicidio comunista impunito. Oggi lo ricordiamo

Paolo Di Nella morì 37 anni fa, in questo giorno. Morì, fuori tempo massimo, nel 1983, dopo la stagione degli anni di piombo. Sembrava che quel periodo tragico fosse ormai concluso, con la morte nel marzo 1980 di Angelo Mancia. Il dipendente del nostro giornale assassinato in un agguato partigiano dalla Volante Rossa. Come gli assassini di Paolo Di Nella, anche quelli di Angelo Mancia rimasero impuniti. Paolo Di Nella lo conoscevo, frequentava la sezione del Msi del Trieste Salario in viale Somalia e la federazione provinciale del Fronte della Gioventù. Era amico di tutta quella meglio gioventù di attivisti di quegli anni. Ma in particolare dei fratelli Buffo, di Gianni Alemanno, di Sergio Mariani, di Paolo Omodei e di quel gruppo di giovanissimi che frequentavano la sezione Trieste. Era apparentemente un po’ chiuso, ma sempre pronto a scherzare quando stava con i suoi fratelli. Il gruppo era profondamente legato. Era spesso preso in giro per le sue battaglie ambientaliste, alle quali dedicava tutte le sue energie. Allora non capivamo che Paolo Di Nella era avanti tutti noi.

Di Nella, “uccidere un fascista non è reato”

I fatti sono noti, ma li rievochiamo per quei giovani che oggi portano avanti anche la sua battaglia. Alle 20.05 di quel 9 febbraio 1983 il suo cuore smise di battere. Noi ragazzi del Fronte della Gioventù (l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano) ci sentimmo allora irrimediabilmente più soli. Perché sapevamo perfettamente che “uccidere un fascista non è reato” non era solo uno slogan dei “duri” dell’Autonomia operaia (che rivendicò l’assassinio), ma era diventata una legge non scritta. L’avevamo subìta parecchie volte e non ci eravamo mai fermati. Il Fronte non si fermò neanche allora, benché sapessimo perfettamente che anche questo omicidio non sarebbe mai stato punito, così come era accaduto per Francesco Cecchin, ucciso da sconosciuti a piazza Vescovio pochi anni prima. E così è stato. Ancora oggi aggressori a piede libero. Nel caso di Paolo Di Nella le cose andarono un po’ diversamente, anche se una sfortunata vicenda giudiziaria chiuse il caso senza che si fosse arrivati a un colpevole.

Gli inquirenti si mossero solo dopo l’arrivo di Pertini

Anche perché gli inquirenti si mossero con un certo impegno solo dopo che l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini accorse, in forma privata, al capezzale di Paolo. Era evidentemente stato colpito dall’efferatezza e dalla gratuità del gesto feroce verso un ragazzo di vent’anni che si batteva per il verde pubblico nel suo quartiere. Pertini fu affrontato – è il caso di dirlo – da una ragazza del Fronte, Marina, che eludendo la sorveglianza al presidente, riuscì a intercettarlo e a dirgli quello che pensava. «Questo è il frutto dell’odio che avete alimentato per quarant’anni! Ci stanno ammazzando tutti!», disse Marina. Pertini la guardò in faccia, rimase a capo chino in silenzio, le posò una mano sulla spalla e si allontanò. Il vecchio partigiano ascoltò con molta attenzione la ragazza in lacrime di rabbia e di dolore, e probabilmente capì che i tempi della giustizia sommaria erano davvero finiti per sempre. Possiamo affermare senza timore di essere smentiti da nessuno, che se gli anni di piombo si chiusero fu solo ed esclusivamente grazie alla buona volontà, al senso di responsabilità, alla civiltà degli “estremisti di destra” di allora, che scelsero consapevolmente di non attuare ritorsioni di alcun genere.

Di Nella e la sua battaglia pacifica

E dopo Pertini, fu un profluvio, piuttosto stupefacente, per noi missini, di solidarietà da tutte le parti: l’allora sindaco di Roma Ugo Vetere, del Pci, venne all’ospedale, il segretario del partito Enrico Berlinguer mandò un commosso telegramma. Il giornalista Giuliano Ferrara scrisse un articolo in difesa di Di Nella e del suo diritto a pensarla come la pensava. E proprio così Paolo conduceva la sua lotta politica: civilmente e pacificamente, talmente fiducioso nel suo diritto da andare ad attaccare manifesti da solo con la sua ragazza, in un periodo in cui questo non era consigliabile.

Paolo aggredito vigliaccamente alle spalle

Paolo non era assolutamente un violento, ma non si fermava mai. Non c’era nulla che si potesse dire o fare per impedirgli di agire come a lui sembrava giusto. Anche quella sera, poiché non c’erano persone disponibili ad accompagnarlo, gli fu proposto di rimandare alla sera successiva l’affissione, ma lui non ne volle sapere. La battaglia di combatte tutti i giorni, e guai a chi si ferma. Andò con una militante del Trieste Salario, che lo accompagò con l’automobile. E’ grazie a lei se abbiamo una testimonianza precisa di tutto quello che accadde. Paolo scendeva, affiggeva, e ripartivano. L’Autonomia operaia era molto attiva nel quartiere Africano, quello dove Paolo e i suoi camerati lottavano affinché Villa Chigi fosse restituita alla gente. Negli anni e precedenti le sezioni missine della zona, via Migiurtinia, viale Somalia, la Monte Sacro, la Talenti, la Tufello, erano state oggetto di decine di attentati dinamitardi incendiari, assalti armati.

Quella notte in viale Libia

A piazza Gondar, in viale Libia (dove oggi c’è la scritta che lo ricorda), Paolo fu aggredito da dietro da due ragazzi, uno dei quali lo colpì con un oggetto contundente mai identificato. Gli causò la commozione cerebrale che lo portò, dopo una settimana di agonia, alla morte. La ragazza lo accompagnò a sciacquarsi la testa alla fontanella, e lui le gece promettere di non dire nulla a nessuno, che non er aniente. Ma tornato a casa si sentì male e fu portato in ospedale. Vegliato incessantemente – oltre che dalla sua splendida famiglia – da tutti i suoi camerati. Il suo sacrificio è servito a far accorgere agli italiani di quanto accadeva, a far diventare Villa Chigi parco pubblico – oggi è intitolato a suo nome – e a far finire gli anni di piombo.

La responsabilità morale della sua e di altre morti è ascritta per sempre a tutta una classe politica e mediatica che per anni ha chiuso gli occhi di fronte alla palese ingiustizia a cui i giovani missini erano sottoposti da parte di tutti. In quella settimana di agonia di Paolo ci furono affissioni per denunciare l’accaduto, un corteo sfilò per il quartiere, assemblee nelle scuole, ma a nessuno sembrava gliene fregasse qualcosa: al Giulio Cesare anzi si arrivò a confermare il diktat che uccidere un fascista non è reato.

Il comunicato del FdG: “Caduto per la Rivoluzione”

Vogliamo concludere questo ricordo con il comunicato del Fronte della Gioventù emesso qualche giorno dopo la morte di Paolo. “Con Paolo di Nella è morto un combattente per il proprio popolo, un nazional-rivoluzionario. Nessuno si permetta di offendere questo martire con inutili isterismi. L’unica vendetta è continuare la sua lotta contro il sistema che lo ha assassinato”. Al suo funerale, quando la bara avvolta nella bandiera con la croce celtica uscì dalla chiesa di piazza Verbano, a migliaia salutarono Paolo Di Nella col braccio teso.

Il volantino di rivendicazione dell’assassinio spuntò il 14 febbraio, in una cabina telefonica di piazza Gondar, a pochissimi metri da dove c’era stata l’aggressione. È firmato da Autonomia Operaia. L’ultimo atto della tragedia avviene nel dicembre del 2008, il papà di Paolo è morto e la famiglia ha deciso di farli riposare insieme. La bara di Paolo è lentamente esposta e appaiono ancora quei colori: il rosso, il bianco, il nero; per venticinque anni la bandiera con la celtica ha riposato insieme a Paolo. La bara di Paolo viene messa vicino a quella del padre, si stende di nuovo sopra la sua bandiera, e c’è una piccola scritta: “Caduto per la Rivoluzione”.

di: Antonio Pannullo @ 12:24


Gen 28 2020

Addio a Duilio Marchesini, coraggioso “guerriero medievale” che non venne mai meno ai suoi princìpi

Duilio Marchesini ci ha lasciato alla soglia dei 90 anni. Era infatti nato a Roma, dalle parti di Porta Metronia, nel 1930. Una vita piena, intensa, coerente. Anzi, molte vite. Perché fu professore, cattolico tradizionalista, artista, scrittore, membro dell’Opus Dei. Ma soprattutto fu uomo d’azione. Anzi, un teorico (aveva due lauree) che all’occorrenza si faceva uomo d’azione. E in quegli anni per difendere le proprie idee occorreva farlo spesso. “Il cazzotto di Dio”, lo chiamavano allora scherzosamente i suoi amici, perché sopra ogni altra cosa combatteva, nelle strade, il materialismo ateo. Nelle cronache dell’epoca, lui cominciò fin dagli anni Sessanta a fare politica, il suo nome è indissolubilmente legato a quello dell’amico Giancarlo Scafidi. Erano inseparabili, in chiesa come in piazza, e oggi Scafidi era in prima fila nella bella chiesa di Sant’Eugenio alle Belle Arti, dove tra l’altro Marchesini faceva ultimamente catechismo ai bambini. Marchesini, che da anni come detto era attivissimo nell’Opus Dei, aveva preso l’impegno morale di povertà, castità e obbedienza, al quale non è mai venuto meno.

Marchesini protagonista di moltissimi episodi degli anni Settanta

Innumerevoli gli episodi di cui Marchesini, che era incontenibile, si rese protagonista. Lui e Scafidi frequentarono per un certo periodo Civiltà Cristiana, la vivace associazione di cattolici tradizionalisti sempre in prima fila nella difesa della fede. Marchesini tra l’altro fece il servizio d’ordine, nel 1977, quando venne a Roma monsignor Lefebvre. Ma prima di questo, come si è detto, dal 1968 in poi, fu attivissimo nell’università di Roma La Sapienza. Come abbiamo saputo, dal ’62 Marchesini gestiva incontri culturali fra professori e studenti all’ Università della Sapienza. Erano dialoghi interdisciplinari aperti al dibattito (quella del dialogo era una “conditio sine qua non”) e spesso si protraevano con singoli studenti dopo l’incontro. Dapprima alla Casa dello Studente di via Cesare De’ Lollis, poi alla facoltà di Lettere e Filosofia, infine a Giurisprudenza. Finché fu possibile. Nel ‘67 a Marchesini si aggiunse Scafidi e insieme riuscirono a mandare avanti queste iniziative, persino in tempo di occupazioni, in situazioni sempre più rischiose, fino al ’76.

Duilio subì almeno cento aggressioni alla Sapienza

E fu proprio alla Sapienza che Marchesini subì le più gravi aggressioni. Da parte – come diceva lui e in effetti era così – dell’ateismo comunista sostenuto da Unione Sovietica, Cina e Partito Comunista Italiano. Marchesini subì all’ateneo capitolino qualcosa come 100 aggressioni. Qualcuna più grave, qualcuna meno. Ma certo una volta gli ruppero la testa, una il braccio. Una nel 1973, una nel 1974. Ma lui non si arrese mai. Anche da solo, “caricava i comunisti” che invece erano in gruppo. Marchesini, pur avendo molti amici, tuttavia non apparteneva a nessun gruppo politico.Per questo spesso lo trovavano da solo, o con Scafidi,  e li aggredivano selvaggiamente. Un’altra volta, un prete “moderno” della chiesa dei Martiri Canadesi a Roma, decise di aprire alla modernità e autorizzò le famigerate messe con la chitarra. Marchesini non lo poteva tollerare. Per lui la messa era un rito sacro. Avvisato dai veri fedeli della chiesa, andò con un gruppo di fedeli, interruppe la messa e scatenò un parapiglia, schiaffeggiando anche il sacerdote dissacratore. Tre chitarre furono distrutte in quella circostanza. Memorabile rimase poi il sit in  organizzato da Marchesini al Teatro dell’Opera dove si rappresentava Jesus Christ superstar.

Quel giorno barricato dentro San Pietro…

Ma il suo peggiore “nemico” era Paolo VI. Intransigente e cristiano sin nel profondo com’era, Marchesini non capiva perché Paolo VI dovesse incontrarsi con il ministro degli Esteri sovietico Andrej Gromyko continuamente. Decise di agire. Con un gruppo di – oggi diremmo facinorosi ma erano solo persone convinte delle loro idee – si introdusse dentro San Pietro per manifestare il suo sdegno. Ovviamente arrivò la polizia vaticana e Marchesini si barricò in una cappella dentro San Pietro insieme con pochi altri. Alla fine furono raggiunti dai gendarmi, picchiati e consegnati alla polizia italiana. Marchesini era così: coerente fino allo spasimo, deciso, difensore delle idee e dei veri religiosi. La sua strada – impervia – spesso in intrecciò con quella del Fuan, del Msi, di Ordine Nuovo, di Avanguardia nazionale, quando gli obiettivi erano comuni. Ed ebbe la stima e il rispetto di tutti gli attivisti, una volta constatato che non si tirava mai indietro, anzi che spesso partiva per primo. E oggi c’erano anche molti “vecchi” politici alle sue esequie, ma anche molti giovani, perché Duilio ha ben seminato.

Una storia esemplare di bontà e abnegazione

Infine, vorremmo concludere questa non esauriente biografia di Duilio Marchesini con un episodio che dà la cifra della statura morale dell’uomo. Abitando in via Gallia, Marchesini e Scafidi frequentavano anche la sezione didel Msi di piazza Tuscolo. Addirittura, nel 1976 vi si iscrissero, insieme con una ragazza che avevano conosciuto. Al congresso sezionale Marchesini si presentò segretario – chissà perché – in opposizione a Tommaso Luzzi, che ovviamente poi divenne segretario. Marchesini prese tre voti: il suo, quello di Scafidi e quello della ragazza che li accompagnava. La ragazza era fuggita dal suo paese di origine, in Ciociaria, perché era incinta. Marchesini la convinse a non abortire e insieme col suo inseparabile amico la mantennero e poi mantennero agli studi la bambina che nacque. Ebbene, oggi madre e figlia erano in chiesa a salutare Duilio.

di: Antonio Pannullo @ 19:27


Gen 20 2020

Oggi Paolo Silvestri ha dato l’addio ai suoi “ragazzi”. Commovente cerimonia del “presente!”

Paolo Silvestri, classe 1939, stamattina è stato salutato dai suoi “ragazzi” del Fronte della Gioventù. I “ragazzi” di cui si parla oggi viaggiano tutti intorno ai 60 anni e oltre. Eppure erano tutti lì, nella chiesa del Buon Pastore in piazza dei Caduti della Montagnola, vicino casa di Paolo. Paolo Silvestri fu un attivissimo componente della segreteria federale del Msi di Roma. Trascorreva tutto il suo tempo fra via Quattro Fontane, sede della direzione nazionale del Msi, e via Alessandria, dove c’era la federazione romana. Era un organizzatore, un lavoratore, ma soprattutto un consigliere per tutta quella fantastica generazione di attivisti di quegli anni. Amico di Donato Lamorte, Massimo Anderson, Franco Tarantelli e naturalmente Guido Morice, il leader riconosciuto dei militanti degli anni di piombo.

Paolo Silvestri veniva da Mestre

Veneziano di Mestre, Paolo a fine anni Sessanta dovette allontanarsi dalla sua città perché ricercato dalla polizia. Non a caso padre Attilio Russo, venuto appositamente a Roma per celebrare le esequie, lo ha definito un “perseguitato dalla giustizia”. Paolo entrò nel meccanismo operativo del partito, e fu subito chiaro che era tagliato per questo mestiere. La politica era la sua passione.E ancora anni dopo, quando una certa politica era già finita, ogni mese partecipava alle cene degli ex attivisti di via Sommacampagna, dove amava intrattenersi e parlare di politica. E la sua visione era sempre chiaroveggente: vedeva e capiva la politica meglio di tanti altri “soloni” del giornalismo italiano. E la spiegava con quel suo delizioso accento veneto, dal quale traspariva il suo cattere mite e riflessivo. Nella sua prolusione, padre Attilio, che lo conosceva da oltre mezzo secolo, ne ha ricordato la figura. La sua amicizia con Alberto Rossi, leggendario capo dei Volontari Nazionali, il suo indefesso lavoro nella macchina organizzativa del Msi.

Paolo, “burocrate” e uomo d’azione

Ma Paolo Silvestri non era solo un “burocrate”, ma all’occorrenza anche uomo d’azione. Come ha raccontato Roberto Rosseti, era con i suoi ragazzi quella mattina a piazzale Clodio di alcuni decenni fa. Alle 6,30 c’era il concentramento dei missino davanti al tribunale, per poter assistere al processo Primavalle, dove erano imputati gli assassini dei fratelli Mattei. L’ultrasinistra non voleva assolutamente consentire ai “fascisti” di assistere al provcesso ai boia di Potere Operaio, e così si mobilitarono in forze. Già davanti al tribunale le revolverate degli antifascisti accolsero i giovani del Fronte. Dopo, gli scontri si spostarono a piazza Risorgimento, dove gli assassini rossi spararono ancora, stavolta per uccidere. Cadde il giovane greco Mikis Mantakas proprio davanti la porta della sezione Prati. L’episodio è stato raccontato da Roberto Rosseti, ex Volontario Nazionale, nella sua orazione funebre sul sagrato della chiesa.

La difesa di via Noto nel 1975

Di un altro episodio, sempre per la serie “militanza totale”, ho un ricordo personale. Era il 1973, ottobre. Il “teatro” dei fatti era il liceo Augusto in via Appia, poco distante dal circolo autonomo del FdG di via Noto e non lontano dalle sezioni Appio e Tuscolano, rispettivamente via Etruria e via Acca Larenzia. Centinaia di compagni avevano in programma una assemblea nel liceo. Vi partecipavano gli operai della Stefer, tutti comunisti, iscritti del Pci di via Appia, studenti, e vari militanti dei movimenti ultracomunisti della zona. Il clou dell’assemblea sarebbe stato l’assalto in forze a via Noto. Ma i missini erano preparati, anche perché erano giorni che i ragazzi di destra subivano continue aggressioni. Oltre agli attivisti di via Noto, a difendere la sede giunsero numerosi dirigenti di partit. Rauti, Pazienza, Saccucci, Marchio, Turchi, Buontempo, Gaetani Lovatelli (in quell’anno federale di Roma), Gionfrida, Ciancamerla e il nostro Paolo Silvestri. Come si vede, molti di loro non ci sono più, ma si batterono come leoni per la libertà e l’esistenza del circolo. L’assalto della turba comunista venne respinto con successo.

Ciao, fratello maggiore

“Un fratello maggiore”, lo hanno definito Rosseti e padre Attilio. Ed era proprio così, per tutti noi ragazzi del Fronte. E nonostante le scelte di ognuno di noi, Paolo compreso, abbiamo fatto alla fine della politica. Ma gli ideali che ci hanno informati, ai quali abbiamo sempre creduto, non sono mai mai venuti meno nel corso della vita. E la chiesa di stamattina ne era la dimostrazione. Così come il “presente!” chiamato a voce tesa da Giodo Morice, capo indiscusso dei ragazzi di allora, al quale abbiamo tutti risposto commossi.

di: Antonio Pannullo @ 19:15


Gen 20 2020

Tommaso Manzo, da M.Arte premio in suo nome a Valerio Cutonilli «per la ricerca della verità»

Sarà consegnato questa sera dall’Associazione culturale M.Arte all’avvocato, Valerio Cutonillisaggista, scrittore e appassionato ricercatore, soprattutto sul terrorismo – il premio intitolato alla memoria dell’avvocato Tommaso Manzo. Che di M.Arte è stato prima socio e, poi, entusiasta presidente per due anni. Fino al gennaio di un anno fa. Quando è venuto a mancare.

Il riconoscimento a Cutonilli sarà consegnato oggi alle 20,30 presso l’Auditorium Due Pini di piazza dei Giuochi Delfici a Roma.

M.Arte – Cultura per muovere l’Arte – che, proprio quest’anno spegne le undici candeline dalla sua fondazione, riconosce a Cutonilli «la sua preziosa ed eccezionale ricerca di una verità storica. Non soltanto nascosta, ma anche deliberatamente alterata e mistificata. Da un potere spesso occulto e criminale».

Premio Tommaso Manzo a Valerio Cutonilli per i suoi libri sul terrorismo rosso

«Valerio Cutonilli ha avuto il non indifferente coraggio di affrontare questo potere – spiega la motivazione del premio “Tommaso Manzo” – dimostrando le incongruenze e le contraddizioni di tesi chiaramente prefabbricate. Ad uso e consumo di un sistema pervasivo e trasversale. Incline a cercare colpevoli e mandanti soltanto in una determinata area politica».

«Già i titoli dei suoi libri testimoniano, da soli, che il brillante avvocato, trasformatosi in storico ed investigatore – riconosce M.Arte – ha voluto deliberatamente toccare due grossi nervi scoperti, e ancora doloranti, della prima Repubblica. La strage di via Acca Larentia, in cui persero la vita tre giovani militanti missini, con “Chi sparò ad Acca Larentia?“. E, poi, il successivo “Acca Larentia, quello che non è mai stato detto“. E la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Con “I segreti di Bologna” scritto assieme all’ex-magistrato Rosario Priore».

«Ma, come dimostrano alcune recenti nebulose sentenze – recita, ancora, la motivazione del premio “Tommaso Manzo” – l’impegno di Valerio Cutonilli è destinato sicuramente a continuare anche in futuro. La sua ricerca della verità verrà, infatti, prima o poi, coronata dal successo. Se la fortuna, com’è noto, arride agli audaci, il successo premia gli ostinati. E Valerio Cutonilli di audacia e di ostinazione ne ha da vendere».

L’impegno civile di Tommaso Manzo: politica, professione e sport

Nel corso dell’incontro, moderato dalla presidente di M.Arte, Roberta Di Casimirro, interverrà, per ricordare la figura di Tommaso Manzo, chi ne ha condiviso, in tutti questi anni, il percorso di vita e di impegno a tutto tondo: nella politica, nello sport, nell’avvocatura.

Maurizio Gasparri ricorderà dunque Tommaso Manzo e la politica. Fin da quando era in Ordine Nuovo con Pino Rauti. E quando poi rientrò nel Msi. E fu segretario e colonna portante della storica sezione Balduina del Msi di via delle Medaglie d’Oro 128c in anni davvero difficilissimi. E, poi, quando divenne consigliere comunale a Roma.
«Tommaso è sempre stato un riferimento. E un elemento di garanzia – dice il senatore di Forza Italia – Da giovane era diventato avvocato. E, quindi, provvedeva alla difesa legale dei militanti di destra che venivano perseguitati da quello che definivamo, allora, il regime. Poi, da dirigente politico di territorio, Tommaso venne aggredito dai comunisti. E, per questo, ferito gravemente. Divenne consigliere comunale, dirigente di partito. Sempre un elemento di saggezza, di esperienza, di tutela del nostro mondo».

Così Tommaso ha difeso i valori ideali e morali della destra

«Tommaso – ricorda ancora Gasparri – ha difeso i valori della destra, in termini ideali, morali, con grande trasparenza, grande coerenza, grande determinazione e coraggio. Ma ha anche difeso i testimoni militanti della destra aiutandoli sotto il profilo legale. Quindi ha difeso le persone e i valori. E di questo noi gliene siamo grati. E gliene saremo grati con una memoria, la sua, che non si perderà, mai, nel tempo».

Giosuè Bruno Naso, storico e bravissimo avvocato di quella indimenticabile pattuglia di legali che, in tempi veramente bui, non si ti tirò mai indietro per difendere i tanti camerati accusati ingiustamente, ricorderà Tommaso Manzo e il suo impegno nell’avvocaturaPenalista di grande umanità e valore. Tanto da essere eletto, più volte, negli organi di rappresentanza della categoria.

Renato Manzini, anch’egli avvocato, celebrerà Tommaso Manzo il maestro, con il quale ha condiviso lo studio legale: «La storia di Tommaso è la mia storia. Siamo stati sempre insieme. Il sodalizio professionale era Manzo e Manzini. Tommaso, pochi lo sanno, ma era un generoso. Il mestiere me lo ha insegnato lui. Siamo rimasti sempre molto molto vicini. E’ stato il mio fratello maggiore che non avevo avuto».

«Sempre sorridente, un po’ calciatore, un po’ avvocato»

Il presidente Asi Claudio Barbaro, ricorderà Tommaso Manzo nel suo impegno sportivo, in particolare come promotore dell’Asi, l’Ente di promozione sportiva riconosciuto dal Coni, di cui fu uno dei fondatori nel 1994.
Una realtà consolidata che, oggi, conta 130 sedi territoriali, 70 settori tecnici-sportivi e più di 5.000 operatori.

«Mi ha seguito come dirigente e responsabile della giustizia sportiva del Fiamma prima. E in Asi poi in tutti questi anni – ha ricordato Barbaro giusto un anno fa quando Tommaso Manzo venne, improvvisamente, a mancare – Sempre sorridente e goliarda. Voglio ricordarlo così: dentro lo spogliatoio prima di una partita di un torneo Fiamma. Con la maglia biancorossa della Fiamma Balduina a strisce verticali, omaggio proprio a Tommaso nato a Vicenza. Calzoncini ascellari quelli di Tommaso, calzettoni verdi da passeggio e scarpe classiche di cuoio. Un po’ calciatore, un po’ avvocato. Magro con le gambette come un canarino affamato. E, infatti, lo avevamo soprannominato “Canaris“».

Peppino Valentino invece, tratteggerà, di Tommaso Manzo, la storia umana e professionale.

 

 

 

 

 

di: Silvio @ 17:33


Gen 13 2020

Economia, le ragioni di una crisi e un dibattito da riaprire: più Stato meno mercato?

Riceviamo da Mario Bozzi Sentieri e volentieri pubblichiamo. Caro direttore, deve ritornare l’interventismo pubblico in economia? Insomma, dobbiamo tornare al vecchio slogan: Più Stato meno mercato? Ecco un bel tema sul quale riaprire il confronto, senza schematismi politico-culturali. Un tema che dovrebbe trasversalmente interessare e coinvolgere al di là delle vecchie appartenenze, guardando alla realtà, alla crisi economico-sociale in atto, alle debolezze “di sistema”.

Più Stato meno mercato: si può fare?

Dopo decenni di neo-iper-vetero liberismo una qualche messa a punto, nel motore di un capitalismo sempre meno “turbo”, bisognerà pur iniziare a farla. Partendo dallo stato di salute del Bel Paese e dai nuovi problemi sul tappeto. Questioni come l’Ilva o la gestione-ammodernamento della rete autostradale, tanto per citare due casi emblematici all’onore delle cronache, non possono oggettivamente essere gestite in modo ordinario o appellandosi genericamente al mercato e alle sue capacità di autoregolamentazione. E poi c’è la crisi economica.
Sono ormai più di venticinque anni che l’Italia deve fare i conti con la stagnazione. Sono i numeri a parlare chiaro. Nell’ultimo decennio il nostro Prodotto Interno Lordo è calato dello 0,3% l’anno, laddove in Germania è cresciuto dell’1,3% e dello 0,9% in Francia. Scende la produzione e con essa gli occupati nell’industria manifatturiera (meno seicentomila dal 2008 al 2018). Le cause sono diverse. Sta proprio qui la tipicità del “caso italiano”.

La tipicità del caso italiano

A concorrere alla crisi sono infatti diversi fattori che interessano non solo, genericamente, il mercato, le modalità produttive, la capacità competitiva delle nostre aziende. L’instabilità politica, con la conseguente incertezza delle scelte programmatiche a livello governativo, è certamente il primo fattore. Ma, in una sorta di effetto trascinamento, a seguire c’è la Scuola, la crisi demografica, i freni burocratici, la tassazione, i tempi della giustizia, la debolezza della ricerca applicata.
E’ insomma un sistema a non funzionare e a pesare sul mondo della produzione e del lavoro, con in più, rispetto al passato, l’emergere della questione ambientale, il dilatarsi della povertà, i nuovi scenari della globalizzazione.

I limiti imposti dall’Unione europea

Sul versante degli investimenti green perfino l’Unione Europea sembra orientata a rivedere le regole sui vincoli di bilancio, fino ad arrivare ad un riesame del Patto di Stabilità, con un riferimento agli investimenti pubblici ecosostenibili.
Sul piano sociale, gli ultimi dati Eurostat disegnano un quadro nel quale, per l’Italia, la forbice sociale si allarga, evidenziando come il 20% della popolazione con redditi più alti può contare su entrate superiori a sei volte quelle di coloro che sono nel quintile in difficoltà.
L’economia globalizzata,  favorendo lo spostamento della produzione verso i cosiddetti paesi in via di sviluppo (vere e proprie zone franche in cui i diritti umani non sono garantiti e dove i salari sono più bassi) ha reso evidente l’assenza dello Stato regolatore, a tutto vantaggio di un capitalismo senza frontiere e senza regole.

I limiti del radicalismo neo-liberista

Visto quel che è accaduto e sta ancora accadendo importa allora poco ricapitolare vecchie scuole e categorie desuete. Più significativo è attrezzarsi per definire nuovi assetti. Capaci di creare un diverso clima sociale, in grado di informare, di dare nuova forma e speranza al sistema-Paese.
Mettiamo perciò da parte le definizioni di scuola. Quelle con in testa il radicalismo neoliberista. Andiamo, piuttosto, alla sostanza delle cose. Magari con un occhio rivolto verso quello che una ventina d’anni fa si considerava un sistema al tramonto. La famosa economia sociale di mercato d’impronta renana, a fronte del trionfante modello “neoamericano”, fondato sui valori individuali. La massimizzazione del profitto a breve termine. Lo strapotere finanziario.
Risultati recenti ci dicono che lavorare per un progetto partecipativo e di autentica integrazione sociale dà buoni risultati sia per la crescita delle aziende e dunque del benessere dei lavoratori ed il giusto profitto del capitale sia, più in generale, per il sistema-Paese.

L’equilibrio tra rigore e sviluppo

Certo è che un nuovo modello di integrazione socio-economica non si improvvisa. Bisogna averne ben chiare le direttrici essenziali e su di esse lavorare con coerenza, in un attento equilibrio tra rigore e sviluppo, flessibilità e garantismo, capacità di programmazione ed adattabilità. Non escludendo l’intervento pubblico, a partire dai settori strategici delle infrastrutture, della Scuola e della ricerca, del gap demografico e dell’efficienza burocratica. Nessuno – sia chiaro – vuole restaurare l’idea di uno Stato omnia facies, talmente invasivo da occuparsi – per dirla con una battuta – della produzione dei panettoni. D’altro canto però i temi sul tappeto evidenziano un quadro generale di crisi che non può essere affrontato con strumenti usuali o peggio ancora appellandosi alle mitiche leggi di mercato, ormai alla corda.

Più Stato meno mercato: pro e contro

E’ piuttosto ad uno Stato autorevole ed inclusivo che bisogna fare appello, uno Stato, espressione di una Politica “alta”, che non sia solo momento di mediazione, quanto soprattutto luogo ideale per fissare priorità, per dare obiettivi, per costruire momenti concreti di dialogo e di concertazione, per “rivoluzionare” assetti obsoleti, inadeguati a rispondere al mutare della realtà sociale.
E’ insomma mettendo finalmente all’ordine del giorno del Paese non solo la stanca elencazione dei problemi, delle emergenze, dei tagli di bilancio che si può sperare di invertire l’attuale congiuntura. Al contrario è alzando il tiro nelle idee e nelle proposte che si può pensare di lavorare con lo sguardo rivolto “al dopo”. Pena un irreversibile tramonto.

di: Valter @ 16:09


Dic 21 2019

PIAZZA FONTANA OLTRE LA RICORRENZA-2. Ombre inglesi sulla strategia della tensione

Molteplici sono le chiavi di lettura per la strage di piazza Fontana. Perché molteplici sono gli interessi in gioco. «Diciamolo: le grandi stragi compiute in Italia non sono opera di bande di ragazzi. Ma grandi operazioni politiche progettate nelle capitali di Paesi che avevano interesse a tenerci sotto scacco». A parlare così è il giudice Rosario Priore, un magistrato che ha indagato sui grandi misteri della Repubblica. Titolare dell’inchiesta sulla strage di Ustica, ha condotto indagini anche sulle stragi di matrice mediorentale. Oltre a interessarsi delle Brigate Rosse e del fenomeno delle bande armate negli anni Settanta.

Priore è uno di quelli che hanno provato a guardare con più convinzione al di là dei confini nazionali. A suo parere, risposte decisive, per piazza Fontana e oltre, sono conservate negli archivi di Londra e di Parigi, oltre che in quelli di Washington.

Possibile mai? Che interesse potevano avere Gran Bretagna e Francia, alleate dell’Italia, a destabilizzarci? La chiave sta nel Mediterraneo e nel controllo delle sue rotte energetiche.

Piazza Fontana e i concorrenti dell’Italia

La conflittualità tra il nostro Paese e questi due ingombranti “coinquilini” nel controllo di quest’area strategica è di vecchia data. Ed rintracciabile fin da quando l’Italia, da poco unificata, cominciò -ed erano gli ultimi decenni del XIX secolo- a immaginare una sua proiezione geopolitica nel mare che ne circonda le coste.

Questo contrasto d’interessi non s’è affatto attenuato nel dopoguerra. E neanche nel periodo immediatamente successivo. Anzi, per certi versi, s’è anche acuito. E ciò per effetto della corsa all’approvvigionamento di gas naturale e petrolio negli anni del nostro decollo industriale. L’Italia, pur mortificata dal Trattato di pace del 1947, non rinuncia, già qualche anno dopo, a curare i propri interessi energetici attraverso politiche dinamiche e aggressive. Recuperiamo, lungo l’asse mediterraneo, quell’autonomia in politica estera che non c’è consentita lungo l’asse Est-Ovest, quello della contrapposizione tra i blocchi della guerra fredda.

Diverse partite e diversi rischi per l’Italia prima di piazza Fontana

Rosario Priore, in un libro intervista curato da Giovanni Fasanella, Intrigo internazionale (Chiarelettere 2010) sottolinea in tal senso il ruolo svolto da grandi protagonisti della storia italiana del secondo Novecento. «Cito innanzi tutto Enrico Mattei, che ha attuato una politica di potenza e di espansione in tutta l’area, con metodi che irritavano gli altri Paesi occidentali. E poi colui che gli è succeduto negli obiettivi politici: Aldo Moro. Anche le sue iniziative entrarono in conflitto con tutti coloro che avevano interessi forti e consolidati nel Mediterraneo». A questo punto nota Fasanella: «I due maggiori protagonisti della linea di espansione italiana nel Mediterraneo sono stati entrambi assassinati».

Una domanda sorge spontanea: che c’entra tutto questo con piazza Fontana e con la strategia della tensione? C’entra, eccome se c’entra. Innanzi tutto perché, nella strategia della tensione, si «giocano diverse partite», come dice Priore. E la partita mediterranea, sul finire degli anni Sessanta, espone l’Italia a possibili attacchi terroristici allo stesso modo in cui la espongono sia la partita della guerra fredda sia la partita interna, quella cioè dei tentativi di stabilizzazione moderata. È plausibile in tal senso pensare che un’eventuale iniziativa di destabilizzazione proveniente da soggetti stranieri sia avvenuta con l’avallo o quanto meno la conoscenza degli altri soggetti interessati a tenere sotto scacco l’Italia. Soggetti che hanno seguito la vicenda da dentro o da fuori i confini nazionali. In tale prospettiva, anche il caso Moro può essere a pieno titolo considerato come uno dei capitoli del grande libro nero della strategia della tensione.

La guerra civile in Italia

Quando s’inizia a scrivere questo libro nero della destabilizzazione? Il prologo lo troviamo nella guerra civile del biennio 1943-1945. Secondo lo storico militare Virgilio Ilari (Guerra civile, Ideazione 2001) in quegli anni si combattono due distinti conflitti intestini. Quello tra fascismo e antifascismo e quello tra comunismo e anticomunismo. Uno dei primi, tragici episodi di questo conflitto parallelo, è l’eccidio di Porzus, con i partigiani comunisti che sterminano i partigiani bianchi della brigata Osoppo.

Va da sé che la contrapposizione tra comunisti e anticomunisti diventa nel dopoguerra, parallelamente allo scontro politico alla luce del sole, anche guerra civile virtuale o a bassa intensità. «È certo che una componente della Resistenza comunista, quella che aveva in Pietro Secchia il proprio punto di riferimento, aveva concepito la guerra contro il nazifascismo solo come una tappa di un processo rivoluzionario che doveva proseguire». Così afferma Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione stragi dal 1996 al 2001, nel volume La guerra civile (Bur- Rizzoli 2005).

Dalla Volante Rossa alle Brigate Rosse

In quegli anni torbidi e violenti operano formazioni semi-clandestine come la Volante Rossa che seminano sangue nell’Italia del Nord. Per non parlare degli eccidi nel Triangolo della morte e in altri luoghi rimasti tristemente nella memoria italiana. Interessante quanto Pellegrino nota sul legame tra terroristi del dopoguerra e terroristi degli anni Settanta e Ottanta. «Sono sempre più convinto, come lo era Enrico Berlinguer, che un filo leghi la Volante Rossa al terrorismo di sinistra degli anni Settanta».

Neanche sull’altro fronte, quello anticomunista, si rimane con le mani in mano. Ci si attrezzava invece, con convinzione e preoccupazione, a sostenere la guerra civile a bassa intensità. Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta viene organizzata una rete di “volontari civili” con il compito di fare controguerriglia e affiancare l’Esercito nel caso di un tentativo insurrezionale comunista. Questa struttura durerà pochi anni. Perché sarà assorbita da Stay Behind (meglio nota con il nome in codice di Gladio) e sarà posta sotto il diretto controllo della Nato. Questa prima struttura è presieduta dal generale Giuseppe Pièche, dell’Arma dei carabinieri, e organizzata da Edgardo Sogno, che è stato volontario fascista durante la guerra di Spagna per poi diventare, cambiando fronte, partigiano monarchico durante la guerra civile del 1943-1945. Sogno è in «ottimi rapporti con Allen Dulles capo dell’OSS (il servizio segreto Usa durante la guerra n.d.r.) , che lo finanzierà abbondantemente negli anni Cinquanta, e frequenterà un corso di guerra psicologica al Nato Defense College di Parigi» (Angelo Ventrone, La strategia della paura, Mondadori 2019).

Le strutture contrapposte dei comunisti e degli anticomunisti rimangono però sostanzialmente inattive per tutti gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta.

L’attentato a Enrico Mattei primo atto della strategia della tensione

Dove la strategia della tensione batte un primo, inquietante colpo è nella partita mediterranea ed energetica. Nel 1962 muore in circostanze “misteriose” il fondatore dell’Eni Enrico Mattei. Ufficialmente si parla di incidente. E si fa di tutto, all’epoca, per accreditare questa versione chiudendo frettolosamente l’inchiesta. Molti anni dopo si accerterà che si è in realtà trattato di un sabotaggio al suo aereo personale, caduto il 27 ottobre a Bascapè, in provincia di Pavia. Una nuova inchiesta, aperta nel 1997, stabilirà che il velivolo fu «dolosamente abbattuto», senza però poter indicare né i mandanti né gli esecutori materiali.

L’attentato a Mattei rimane comunque un fatto devastante per l’Italia. Un fatto che inaugura la triste serie dei “misteri italiani”, annunciando che qualcosa di pericoloso s’è messo in moto dentro e fuori i confini nazionali. Il messaggio in codice è semplice quanto minaccioso: «Attenti a come vi muovete, non sarete mai una media potenza dotata di vera autonomia».

L’insieme delle compagnie petrolifere occidentali (le famose Sette Sorelle) si sente minacciato dall’attivismo del presidente dell’Eni. Ma chi la prende realmente male è il governo britannico. E non solo in vista degli interessi delle “sue” compagnie, la Shell e la British Petroleum, ma anche per la diversa (e contrapposta) visione geopolitica che emerge dall’azione di Mattei. Una visione che punta ad abbattere una volta per tutte il neocolonialismo e che imposta su una visione di parità e di reciproco rispetto i rapporti tra potenze occidentali e potenze emergenti del Terzo Mondo. Un vero e proprio “oltraggio” nelle prospettiva delle ormai anacronistiche visioni “imperiali” della Gran Bretagna e della Francia. Visioni che suscitano l’irritazione anche degli Stati Uniti. Non sarà certo per caso se il presidente Eisenhower non muoverà un dito per salvare la Francia dal disastro vietnamita a Dien Bien Fu. E se, sempre gli Usa, stroncheranno ferocemente l’improvvida aggressione anglo-francese all’Egitto nella crisi di Suez del 1956.

In quegli anni di vorticosi cambiamenti, uomini come Mattei riescono a inserire l’Italia tra le potenze evolutive ed emergenti della scena mondiale. E si tratta di una linea che rende vicina l’Italia agli Stati Uniti più di quanto comunemente non si pensi.

«L’Eni è una crescente minaccia agli interessi britannici»

Ma è alla Gran Bretagna, prima fra tutti, che la nuova via italiana suscita crescente ostilità. Il nervosismo britannico verso la politica di Mattei è ben ricostruito da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella nel volume Il golpe inglese (Chiarelettere 2014). Gli autori raccontano le trame britanniche ai nostri danni sulla base della desecretazione degli archivi di Londra avvenuta in anni recenti.

Particolarmente inquietante, tra gli altri documenti, la nota di un alto funzionario del ministero dell’Energia britannico, tal Alexander Jarratt: «L’Eni sta diventando una crescente minaccia per gli interessi britannici». A quel punto, suggerisce Jarrat, la soluzione è affidarsi «all’intelligence», piuttosto che al Foreign Office. Questa nota è stata redatta qualche settimana prima la morte di Enrico Mattei. Poco per giustificare un’accusa. Ma abbastanza per sollevare preoccupanti interrogativi.

Dal golpe in Libia nel 1969 alla strage di piazza Fontana

Le ombre inglesi sulla strategia della tensione è possibile rintracciarle anche nella strage di piazza Fontana. Si tratta solo di una congettura. Ma un motivo ci sarà pure se il giudice Priore ha ritenuto di esplicitarla. Il magistrato coglie un significato inquietante nella successione cronologica tra il colpo di Stato in Libia, nel settembre del 1969, e la strage di piazza Fontana, avvenuta tre mesi dopo. «Secondo un’ipotesi non provata, dietro la strage di piazza Fontana ci sarebbe un mandante inglese». Il golpe libico –ormai è accertato- è stato organizzato in Italia, per la precisione in un albergo di Abano Terme. E ci sarà sicuramente stata la mano dei servizi italiani. L’obiettivo era quello di scalzare il filo-britannico Re Idris per sostituirlo con il “filo-italiano” colonnello Gheddafi. Di qui la “vendetta” britannica?

Non ci sono riscontri certi. Ma c’è abbastanza materiale per far avvertire, nella strategia della tensione, un certo odore di petrolio. Un odore portato dai venti del Mediterraneo.

Non sono i soli venti che spirano in quegli anni sull’Italia. Ci sono anche i venti di Parigi e i venti dell’Est. Tutti questi venti concorreranno a creare la bufera delle Brigate Rosse. Ne parleremo nella prossima puntata.

(2-Continua)

 

di: Aldo Di Lello @ 12:24


Dic 09 2019

Sovranismo a più mani: così nasce il nuovo pensiero politico

Siamo abituati a pensare che i fenomeni politici siano preceduti da una gestazione teorica. Più o meno lunga. Più o meno sofisticata. L’irruzione sulla scena del sovranismo ci conduce ora a ribaltare questa impostazione. Prima viene la prassi e poi la teoria. La prassi è quella di un moto di rabbia che attraversa da qualche anno gli elettori e la società dell’Occidente. Un moto spontaneo per l’esproprio della sovranità popolare da parte di oligarchie e tecnocrazie finanziarie nel tempo della globalizzazione. Un fenomeno eterogeneo ma potente. E, a quanto pare, inarrestabile. Un fenomeno, soprattutto, di lungo periodo. Con buona pace di propagandisti e rappresentanti del pensiero dominante.

Ciò non toglie però che la teoria sia necessaria. E questo per rendere possibile un’alternativa di sistema. Il sovranismo deve passare dalla ribellione alla rivoluzione. L’uso di questa parola, rivoluzione, non va inteso come un’iperbole retorica. Ma come il richiamo alla necessità di permettere uno sbocco concreto alla diffusa ansia di cambiamento e rigenerazione. Del resto, le grandi trasformazioni avvengono prima nelle menti di milioni di persone e poi nelle strutture delle società. La sfida necessaria è oggi quella di  preparare la cultura del sovranismo di governo, dando compiutezza al sovranismo dell’opposizione e della protesta.

Un contributo importante in tale direzione arriva dal volume a cura di Gianni Alemanno Sovranismo-Le radici e il progetto. Il libro è pubblicato da Historica Edizioni – Giubilei Regnani Editore (pp.438, euro 22).

È un’opera di notevole rilievo. Un’opera a cui partecipano 37 autori insieme con il curatore e con il prefatore, Marco Gervasoni. Si tratta di docenti universitari, scrittori, giornalisti, dirigenti politici. Per questa ricchezza di contributi, il libro è stato definito l’”encliclopedia del sovranismo”. In effetti questo grande movimento di idee risulta descritto nei suoi diversi aspetti politici, economici e storici.

Un lavoro corale

Il volume curato da Alemanno copre un vuoto di elaborazione che andava colmato. E questo soprattutto in questa fase di gestazione di un nuovo pensiero politico. Non che siano mancati i libri sull’argomento. Ma s’avvertiva il bisogno di un lavoro corale e di una riflessione a più voci. Come peraltro è nella tradizione “a più mani” cominciata a cavallo degli Anni Settanta e Ottanta con i convegni della Nuova Destra. Ed è bene sottolienare che anche questo volume nasce come sviluppo di un seminario che si è tenuto lo scorso anno.

«Questo libro- scrive Gervasoni – dispone al tempo stesso alla riflessione e all’azione». Offre «letture problematiche ma offre anche delle soluzioni che potrebbero essere percorse in diversi campi». Un grande contributo del libro è innanzi tutto quello di sfatare i falsi miti che circolano sul tema. Ad esempio quello di un movimento che punta a rinchiudere il Paese dentro le frontiere nazionali. Un movimento quindi che si fonda sulla “paura”. Non è così. E lo spiega chiaramente Alemanno nella relazione introduttiva. «Il sovranismo non rifiuta, quindi, i trattati. Rifiuta l’idea che questi divengano così vincolanti da non poter mai più rimessi in discussione o rescissi. Neppure quando si dimostrano negativi o vessatori per l’interesse nazionale». L’incredibile vicenda del Fondo salva Stati ce ne offre in tal senso la triste e lampante dimostrazione.

L’Italia –dice sempre il curatore del volume- non può ripartire «senza un duro negoziato con l’Unione Europea». Agli spiriti timorosi o sfiduciati Alemanno ricorda che l’Italia è «contributore netto dell’istituzioni europee». E che un «mercato europeo non è sostenibile senza l’Italia».

Il nostro Paese, le armi per far valere le proprie ragioni, ce  le avrebbe. Eccome se ce le avrebbe. A dispetto di certi talebani dell’europeismo, per i quali tutto si ridurrebbe a conquistare la benevolenza della Commissione di Bruxelles.

Sovranismo vs globalismo

Il volume è diviso in due parti. Nella prima, dal titolo Globalismo e sovranismo, è tracciato il profilo della contrapposizione ideologica dell’odierna stagione storica. Da un lato il pensiero unico (e potenzialmente totalitario) della globalizzazione e dall’altro la cultura  delle identità nazionali e della sovranità popolare. Il sovranismo è la forma politica della risposta popolare all’impoverimento delle società dell’Occidente. Un impoverimento non solo economico, ma culturale e, se vogliamo, anche esistenziale. Esistenziale perché, per milioni di giovani e di famiglie, le prospettive dell’esistenza si sono fatte anguste a causa di disoccupazione e precariato diffuso.

Gli autori presenti in questa parte del volume sono: Aldo Di Lello (La grande illusione), Diego Fusaro (L’essenza dell’Unione Europea) , Marco Cerreto (Nella giungla di Bruxelles), Pietrangelo Buttafuoco (L’irruzione dell’inaudito), Felice Costini (Il popolo contro le élite), Vito Ippedico e Antonio Rapisarda (Il virus si diffonde),  Pier Paolo Saleri (Il denaro non governa), Alessandro Meluzzi e Benedetto Tusa (La Croce e la Mezzaluna), Gianfranco Gentetsu Tiberti (Tra Oriente e Occidente), Marcella Amadio (Il bisogno di confini), Antonio Rinaldi (Abbiamo ancora bisogno di Keynes), Eugenio D’Amico (Trump ci ha insegnato qualcosa?), Marco Rocco (Piedi per terra), Maurizio Giustinicchi (Sovranità, multinazionali e PMI), Simone Vieri (Sovranità alimentare e modelli di sviluppo), Domenico Campana (Sovranità alimentare e modelli di sviluppo).

Il movimento sovranista in Italia

Nella seconda parte del volume, che si intitola Il movimento sovranista in Italia, sono analizzati i motivi che hanno portato il nostro Paese a essere all’avanguardia del moto di reazione politica al globalismo.

Gli autori presenti in questa parte sono: Roberto Menia (La morte della Patria), Marcello De Angelis (Come siamo arrivati a questo punto), Romina Raponi (La sovranità appartiene al popolo), Salvatore Santangelo e Paolo Falliro (Italia globale, Italia sovrana), Mario Landolfi (Ritrovare un vertice), Gianluca Porta (L’inverno demografico), Antonio Tisci (Si riparte dal Sud), Annalisa Maregotto e Antonio Pasquini (Un’Italia veramente unita), Gian Maria Fara (Outlet Italia), Ferrante De Benedictis e Giorgio Ciardi (L’equivoco delle privatizzazioni e liberalizzazioni), Giovanni Zinni (L’impresa come comunità), Alberto Manelli (I mondi vitali delle comunità solidali), Gianluca Vignale (La Salute, un diritto in pericolo), Leonardo e Michele Giordano (L’emergenza educativa), Roberto Pecchioli (Sono Italiano, parlo Italiano), Domenico Naccari (La giustizia è amministrata in nome del popolo), Stefano Masi e Giulia Ciapparoni (La più bella e la più massacrata), ancora Stefano Masi con Cesare Mevoli (La “linea del Piave” dell’agricoltura italiana), Livio Proietti (La rappresentanza come base della sovranità), Franco Bevilacqua e Pino Scianò (Militanza sovranista), Claudio Barbaro (La Coalizione degli Italiani).

Contro la tirannia globalista

Il senso complessivo di tutti questi interventi è reagire all’impoverimento politico dell’Italia.  Impoverimento politico perché la sovranità popolare è diventata un fantasma. Perché gli elettori non dispongono di un reale potere di condizionamento di governi e parlamenti. Perché governi e parlamenti stessi hanno margini di manovra e di intervento sempre più ristretti, dovendo concordare anche i più piccoli provvedimenti finanziari con i tecnocrati dell’Unione Europea, in una contrattazione estenuante, triste e misera. L’impoverimento politico è l’impoverimento delle prospettive. È la ristrettezza degli orizzonti. È l’impossibilità di pensare il futuro e di investire nel domani. Tutto si riduce a qualche decimale di deficit da strappare agli occhiuti ragionieri europei.

Il  sistema di oppressione che è necessario smantellare è innanzi tutto un sistema ideologico, cioè un sistema che si fonda sulla manipolazione e sulla disinformazione degli oppressi. Occorre liberare le menti da concetti sbagliati e idee bugiarde. La tirannia globalista s’è insediata nelle menti. Ed è sempre nelle menti che rinasce la speranza.

di: Aldo Di Lello @ 15:34


Nov 17 2019

Pino Tosi ci ha lasciato. Una vita in prima linea nella temperie degli anni di piombo

Pino Tosi gli anni di piombo li ha attraversati tutti. E tutti in prima linea. Per tutta la vita ha avuto quella fervente passione politica che ha diretto tutte le sue scelte. E anche negli ultimi anni, che stava in pensione, attraverso la sua attività mandava un certo tipo di messaggio politico, soprattutto ai giovani. Negli ultimi anni aveva eletto a suo “buen retiro” la cittadina costiera di Santa Marinella. Lì viveva insieme alla sua fidanzata Ana, che condivideva con lui le iniziative culturali di cui si occupava. Animatore dei una associazione culturale che agiva in tutta la regione, Pino Tosi era uno studioso del Medioevo, dei Cavalieri Templari, delle Crociate. Ma anche dei Vichinghi, degli Antichi Romani, insomma di tutte le tradizioni religiose e culturali del passato. E siccome era anche un bravo artigiano, ecco che riproduceva spade, scudi, quadri, oggetti vari in tema. Non c’era palio o iniziativa culturale nel Lazio a cui lui non partecipasse, curando sfilate e ricostruzioni storiche di grande spettacolarità.

Pino Tosi andava a scuola con Veltroni

Ma la storia politica di Pino Tosi inizia oltre mezzo secolo fa. Precisamente quando frequentava la scuola per cine operatori Tv, non lontana dall’Istituto Nautico a Roma. Era la stessa scuola di Valter Veltroni, che frequentava proprio negli stessi anni di Pino Tosi. Pino era praticamente l’unico di destra in una scuola totalmente rossa, e gli scontri e le aggressioni ai suoi danni erano frequenti, quotidiani. Pino si difese sempre con onore, atterrando sempre diversi aggressori prima di essere sopraffatto. In quegli anni di avvicinò all’organizzazione politica Avanguardia Nazionale, molto attiva a Roma Sud, ma non solo. Lì, nella sede di via Arco della Ciambella e di via Cernaia probabilmente imparò i fondamenti politici e attivistici che lo avrebbero informato in tutta la sua vita (attivistica).

Da Avanguardia Nazionale al Msi

Nel 1969, quando il segretario del Msi Giorgio Almirante chiese a Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale di rientrare nel Msi, Pino fu tra quelli che tornarono. In realtà per Avanguardia Nazionale non ci fu una grande risposta, mentre per Ordine Nuovo sì. Chi conosce la storia dei movimenti extraparlamentari di destra sa cosa significa. Pino rientrò, nella sezione di via Livorno, vicino piazza Bologna, e in breve tempo ne divenne segretario. Grazie alla sue capacità e al suo carisma. La sezione Nomentano-Italia era tra le più forti di Roma. Fondata nel 1949 (prima in via Corvisieri e poi a via Livorno 1), era la sezione dove tradizionalmente era iscritto il segretario del partito. Centinaia di iscritti, attività intensa, la sezione aveva il controllo completo del territorio. Non sembri strano, perché negli anni Settanta l’estrema sinistra si era completamente militarizzata e teorizzava e praticava l’eliminazione fisica di tutti i cosiddetti fascisti. Ma la sezione guidata da Pino Tosi era ben inserita nel quartiere, grazie a quella penetrazione sociale e culturale di cui Pino fu sempre strenuo fautore. Istituì i cosiddetti Nps, i Nuclei di propaganda sociale, che si occupavano dei problemi del quartiere e dei suoi abitanti. Fondò un giornale, Circoscrizione, che veniva distribuito nei locali pubblici della zona.

Il Msi al quartiere Nomentano-Italia

Spaccio di droga in quegli anni non ce ne fu mai e a ogni ora del giorno la sezione aveva delle vere e proprie vedette che annunciavano le aggressioni dell’ultrasinistra. Sì, perché la sezione è abbastanza vicino al Tiburtino, a San Lorenzo, all’Università. Da questi luoghi provenivano gli assalti e gli attentati contro il Msi. La sezione fu più volte assaltata e bombardata negli anni di piombo. Era frequentata, tra gli altri, oltre che dal segretario del partito, dai fratelli Sermonti, Corrado Mannucci, Romolo Sabatini, Claudio Volonté (fratello di GianMaria che ogni tanto si faceva vedere) Giorgio Bacchi, Giulio Caradonna, e da molti combattenti della Repubblica Sociale, tra cui ricordiamo Romolo De Rosa. Fu in quella sezione che Pino Rauti e Giulio Caradonna presentarono per la prima volta in Italia il libro di Konrad Lorenz L’anello di re Salomone, portando così l’etologia nel nostro mondo.

La sezione di Pino Tosi era tra le più forti di Roma

Come detto, la sezione era molto forte, e per questo spesso i suoi attivisti erano distaccati presso le sezioni Portonaccio (in via Govean) e Ponte Mammolo, sedi di frontiera. E una sera avvenne un epico scontro sul Ponte Tiburtino, proprio al confine con la zona rossa. Pino raccontò che lui e una quindicina di militanti erano andati in affissione su via Tiburtina. I compagni questo non lo potevano tollerare. Si radunarono un centinaio di persone e li assaltarono così, senza dire nulla. Pino e i suoi camerati, spalle al muro, si difesero strenuamente e valorosamente e alla fine furono i compagni a scappare. Tutto bene? Non proprio. Il giorno dopo l’Unità scrisse che cento fascisti avevano aggredito giovani democratici… E andò avanti così per anni, con i giornali antifascisti che sistematicamente distorcevano o ribaltavano la realtà. Politica propagandistica che prosegue ancora oggi, a mezzo secolo di distanza. I segretario del partito nominarono più volte Pino Tosi tra i quadri dirigenti del Fronte della Gioventù.

Quella epica trasferta a Milano

Fu proprio in questa veste che Pino partecipò ai famosi scontri di piazza Castello a Milano. Era il 1972, e i democraticissimi comunisti volevano impedire un legittimo comizio del Msi, annunciando una grande mobilitazione. Parlava Mario Tedeschi. Gli attivisti del Msi andarono a Milano per difendere una cosa che dovrebbe essere pacifica, ossia il diritto di parola. Pino da parte sua organizzò la sua squadra, che si scontrò prima nella metropolitana e poi a piazza Castello con i comunisti. Per gli intolleranti della sinistra fu una disfatta completa. Furono costretti a una fuga ignominiosa proprio nella Milano che credeva di poter controllare militarmente. Centinaia di comunisti con caschi, spranghe, fazzoletti, chiavi inglesi, bombe molotov avanzavano contro il palco missino. Ma giunti a duecento metri dal servizio d’ordine del Msi, si sbandarono e fuggirono.

La beffa alle forze dell’ordine

Alla storia ci sono due code. La prima a Milano, dove i compagni si picchiarono, accusandosi reciprocamente di aver consentito ai fascisti di parlare. La seconda a Roma, dove fu la polizia dell’allora questore Improta a essere beffata. Sapendo che i 300 attivisti missini stavano rientrando col treno, la polizia era pronta per arrestarli tutti alla stazione Termini. La beffa è stata raccontata da una leggenda dell’attivismo romano, Franco Tarantelli. Poiché si immaginava una ritorsione delle forze dell’ordine, un attivista rimasto sconosciuto tirò il freno d’allarme proprio alle porte della stazione Termini. I 300 attivisti missini scesero da treno e si dispersero nelle strade circostanti.

Aderì a La Destra di Buontempo e Storace

Gli episodi sarebbero tantissimi, ma per dare la cifra di che tipo di uomo era Pino Tosi, ne ricordiamo solo un altro. In via Lorenzo il Magnifico c’era un bar frequentato da ragazzi che non avevano capito cosa fosse il Msi ma si spacciavano per fascisti. Seduti al bar, ogni volta che passava un anziano ex partigiano lo insultavano e dileggiavano. La figlia, indignata, andò a sfogarsi con Pino Tosi, allora segretario della sezione. Pur non essendo i ragazzi iscritti alla sezione, Pino andò a quel bar e da allora l’anziano ex partigiano non fu mai più molestato. Concludiamo questo non esauriente racconto di Pino Tosi con le sue parole relative a un argomento che oggi è tornato di grande attualità, il razzismo. “A noi non ci ha mai interessato. In sezione avevamo un ebreo e un africano musulmano. Con loro abbiamo lavorato sempre ottimamente. Il razzismo? A noi non era congeniale”.

Dopo gli anni di piombo, Pino aderì alla Destra di Storace e Buontempo. Dopo la fine di questa esperienza, si ritirò a Santa Marinella, ma in  tutte le sue attività ci fu sempre il richiamo a un certo mondo, a certi valori e a certe tradizioni.

di: Antonio Pannullo @ 20:09


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