Apr 14 2020

La vita come avventura: ricordo di Giuseppe Ciarrapico a un anno dalla morte

Peppino Ciarrapico ci ha lasciato un anno fa. Ma la nostra comunità non lo ha dimenticato. Oggi sui social sono spontaneamente comparsi ricordi di quell’uomo che è stato protagonista nel mondo politico della destra. Scrive un ex attivista del Fronte della Gioventù di via Sommacampagna di Roma: “Oggi è un anno che Giuseppe Ciarrapico ci ha lasciato. Personaggio poliedrico: politico, editore, senatore, proprietario di cliniche, e acque minerali, gestore delle terme di Fiuggi, presidente della Roma. Un punto di riferimento, di aiuto. Quanti manifesti gratuiti dalle officine grafiche Saipem di Cassino abbiamo attaccato! Amava Roma, il litorale laziale e la Ciociaria. La Dc di facciata, ma la fede ed il cuore fascista. Andreottiano, ma sincero amico di Giorgio Almirante. Negli anni Ottanta divenne presidente delle terme di Fiuggi cercando di salvare il salvabile del tesoro della difficilissima città.

Ciarrapico fu soprattutto un uomo generoso

Dalla Saipem di Cassino, prima delle grandi officine grafiche in Ciociaria, tanti manifesti con la Fiamma, grandi volumi di lusso su Mussolini ed il Fascismo, giornali quotidiani, libri, fascicoli di storia, armi e forze armate della Rsi, Il Borghese, a cui collaborarono dirigenti e intellettuali della destra, tra cui Marcello Veneziani, che fu direttore editoriale, e, negli anni settanta, Guido Giannettini e molti altri che magari altrove non trovavano lavoro. Soprannominato “Re delle acque minerali” perché proprietario di stabilimenti termali e sorgenti. Sempre per aiutare la cittadina anticolana, organizzò il Premio Fiuggi, manifestazione internazionale cui partecipò persino Michail Gorbačëv. Camerata Ciarrapico Presente!”.

Memorabili le sue Befane tricolori per i bambini

Sì, la vita di Ciarrapico è stata un romanzo. E forse l’estensore di questo commosso ricordo si è dimenticato di quando, egli anni Settanta, Ciarrapico regalò alla sezione di via Sommacampagna due fuoristrada mehari, con cui gli attivisti dei Gruppi Operativi accorrevano quando c’era qualche sezione in pericolo. Perché il “Ciarra”, come lo chiamavano negli ambienti del Msi, era soprattutto un generoso. Un’Epifania, nel 1972, Ciarrapico orgnaizzò una Befana tricolore alla sezione del Msi di Centocelle, dove portò centinaia di pacchi-dono per i figli degli iscritti di quel difficile quartiere popolare. A Roma, Ciarrapico frequentava e aiutava un po’ tutte le sezioni, ma soprattutto era amico fraterno di Giorgio Almirante, che passava spesso a salutare a Palazzo del Drago in via Quattro Fontane.

Quella volta che a Padova salvò Almirante

Ma non era uno che si tirava indietro, preferendo rimanere al sicuro, tutt’altro. E proprio al rapporto tra i due è legato un episodio poco noto di quegli anni, perché di episodi così ne capitavano ogni giorno. Era il 1976, uno degli anni peggiori degli anni di piombo. Un manipolo di intrepidi, tra cui Ciarrapico, partì da pizza Tuscolo a Roma in una decina di automobili, per scortare Almirante a un comizio a Padova, città in quel momento brodo di coltura dell’antifascismo più violento. Erano della partita, oltre Ciarrapico, Domenico Gramazio, Tommaso Luzzi, Ercole Pizzuti, Renato Spaziano, Franco De Medici, alcuni Volonari nazionali (che era il servizio d’ordine del Msi, e alcuni membri della celeberrima palestra di Angelino Rossi del Prenestino.

Il comizio si risolse in un disastro: poche decine di missini asserragliati in una piazza, e migliaia di estremisti di sinistra che ne avevano chiuso tutti gli accessi, decisi a farla finita una volta per tutte con i fascisti. A questo punto, sotto una pioggia di sanpietrini e molotov, Ciarrapico brandendo una cinta guida i ragazzi della palestra contro un varco, forza il blocco non si sa come, e riesce a portare in salvo Almirante. Nella concitazione del momento, i missini si urtarono con le auto causando diversi danni, ma riuscirono ad andarsene quasi incolumi.

L’impegno di Ciarrapico nell’editoria libera

Maurizio Gasparri ne ha ricordato il ruolo di “coraggioso editore”. Sì, perché a cavallo degli anni Settanta e Ottanta Ciarrapico mise su una casa editrice di destra, di grandissimo valore culturale. Ciarrapico fu il primo ad avere l’intuizione di creare dei pocket, per così dire, una linea economica di libri importanti, che potevano così diffondersi agevolmente tra i giovani, che tanti soldi non ne avevano. Così mise anche un serio ostacolo all’editoria imperante della sinistra, che pretendeva di avere il monopolio della cultura, rilevando dapprima le prestigiose edizioni del Borghese e ripubblicandone i titoli, e in seguito le altrettanto prestigiose edizioni Volpe.

Come dimenticare poi la rivista Intervento, fondata da Giovanni Volpe nel 1972, da Ciarrapico rilanciata con la direzione di un uomo come Fausto Gianfranceschi, uno dei primo presidenti della Giovane Italia? Infine, non va dimenticato che nel 2008 divenne senatore del Popolo delle Libertà per volontà di Silvio Berlusconi. E a Gasparri toccò anche fare il capogruppo di Ciarrapico, che pure con le sue posizioni individuali tuttavia si rivelò sempre disciplinatissimo nelle scelte del gruppo, evitando molto responsabilmente di aggiungere polemiche.

Non mancò mai l’appuntamento di Predappio

Insomma, come disse lui, «Ci vuol altro (che due mesi a Regina Coeli), per uno formatosi al Campo Dux. Vi entrai la prima volta quando avevo quattro anni. Littoria era appena fatta. Tutta bianca: una cattedrale di luce». Il fascismo, Giuseppe Ciarrapico, classe 1934, ce l’aveva nel sangue e nella memoria più profonda. Tra l’altro, quando ci fu la stagione del riflusso della destra, e tutti si scoprivano democraticissimi, moderni e riformatori, lui fu l’unico esponente politico del parlamento che continuò ogni anno a recarsi in pellegrinaggio a Predappio.

di: Antonio Pannullo @ 19:34


Apr 11 2020

Dall’anno zero della destra italiana alla sua rinascita

“Ora questa non è la fine. Non è nemmeno l’inizio della fine. Ma è, forse, la fine dell’inizio,” affermava Sir Winston Churchil riferendosi alla battaglia di El Alamein

Le elezioni politiche del 2013 passeranno alla storia come l’anno zero della destra italiana. L’annus horribilis della destra ha avuto il suo “inizio della fine” con alcuni antefatti incontrovertibili ed inconfutabili.

Nel 2009 con lo scioglimento della moderna destra di governo di Alleanza nazionale e la contestuale confluenza nel Pdl, la destra vedeva interrompersi bruscamente un percorso importante per vivere una complicata questione identitaria, resa ancora più forte dalla successiva crisi nei rapporti tra Berlusconi e Fini che portò, nel 2011, alla rottura finiana con la dolorosa scissione a destra e l’inizio della infinita diaspora durata troppo tempo.

A quelle elezioni arrivammo divisi in più formazioni politiche tra chi decise di seguire lo storico leader della destra Fini, più per affetto per la verità che per convinzione, con Futuro e Libertà, chi rivendicava di essere stato, come La Destra di Storace, coerentemente fuori dal Pdl, chi nella da poco nata Fratelli d’Italia, la sola che vinse la lotteria dei partiti sotto il 2% che avevano diritto ad avere una sparuta rappresentanza parlamentare, e chi decise di rimanere legittimamente nel Pdl.

Rapporti umani lacerati, personalismi, rancori, dispetti, una cavalcata nel deserto senza fine e senza più Fini, un leader che, nel bene e nel male, ha segnato gli ultimi anni della destra italiana.

Oggi sono passati sette lunghi anni da quella diaspora e in un contesto come quello attuale sarebbe stupido ed inutile esercizio retorico continuare a litigare e dividersi.

Nella fase della ricucitura del variegato mondo della destra in questi anni è mancata l’armonia, o meglio è mancato Pinuccio Tatarella, come da più parti è stato detto, in particolare l’8 febbraio del 2019, in occasione del riuscitissimo Ventennale della sua scomparsa promosso dalle Fondazioni An e Tatarella, quando tutti i protagonisti della destra si ritrovarono alla presenza di Mattarella per rendere omaggio al fondatore di An.

Gli errori sono stati commessi da tutti, chi più e chi meno, anche da chi scrive che, ad un certo punto, si è ritrovato senza un partito, senza una famiglia politica, senza un leader e, durante la diaspora, anche senza un padre che era riferimento politico con cui confrontarsi.

Nel 2013 a destra lasciammo un grande spazio politico ai 5Stelle che arrivarono in massa in Parlamento forti del 25,5% con ben 108 deputati e per uno strano scherzo del destino ereditarono il 5° piano di Montecitorio, per anni base del Gruppo parlamentare di An, dove si trovava, e si trova ancora, la Sala Tatarella nella quale si tenevano gli esecutivi nazionali del partito e di Azione Giovani, presieduti da Giorgia Meloni.

Ed è da questo episodio che voglio ripartire, da quella Sala.

La prima cosa che fecero i grillini arrivati a Montecitorio fu quella di chiedere di cambiarne nome per intitolarla a Giancarlo Siani, giovane giornalista ucciso dalla Camorra.

In quel momento la destra era ai minimi storici, aveva pochi deputati e nessuno sembrava poter difendere quel luogo simbolo

Eppure, fu proprio in quel preciso istante che la destra riuscì a ritrovarsi per alcuni giorni.

Sui social partì la campagna “Destra Unita, nessuno tocchi la Sala Tatarella” e tutti gli esponenti della destra si mobilitarono anche se in partiti diversi.

Fu proprio Giorgia Meloni il 13 aprile, con un post, a difendere quella Sala, per difendere la storia della destra italiana e la sua unità, inesistente in quel momento, chiedendo ai grillini di rinunciarvi e alla Boldrini di trovare una soluzione.

Fu quello il primo vero passo di un lungo percorso verso l’unità della destra italiana, all’epoca divisa in mille rivoli, che si ritrovò nel nome di Tatarella per ricominciare a ridisegnare quella grande destra immaginata da Pinuccio e che oggi trova in Fdi e in Giorgia Meloni gli unici eredi naturali.

 

di: Aldo Di Lello @ 17:51


Apr 02 2020

Morto prematuramente il senatore Antonino Caruso, consigliere della Fondazione An

“Apprendiamo con grande tristezza la notizia dell’improvvisa scomparsa del senatore Antonino Caruso. A nome mio e di tutta la comunità umana e politica di Fratelli d’Italia desideriamo esprimere cordoglio e vicinanza alla sua famiglia e ai suoi cari. Il senatore Caruso è stato tra i fondatori di Fratelli d’Italia e tra i più capaci e validi esponenti del nostro movimento. Un uomo di altri tempi, un Patriota convinto e capace, uno straordinario professionista. Ci mancherà molto”. Lo ha detto in serata Giorgia Meloni sulla sua pagina facebook.

Antonino Caruso era un’avvocato di prim’ordine

Antonino Caruso, avvocato e parlamentare, era consigliere in carica della Fondazione Alleanza nazionale. Classe 1950, è morto prematuramente per un attacco cardiaco. Era stato senatore di Alleanza nazionale e del Popolo delle Libertà per quattro legislature, sempre nella circoscizione Lombardia. La prima elezione al Senato risale al 1996. Qui fece subito parte della 2a commissione permanente Giustizia nonché componente di altre commissioni parlamentari. Fu poi confermato nel 2001, 2006 e 2008, quest’ultima con il PdL.

Tra i fondatori di Fratelli d’Italia, ne curò lo statuto

Come ha ricordato Giorgia Meloni, nel 2012 lasciò il gruppo parlamentare del PdL insieme ad altri dieci senatori, per costituire il gruppo chiamato Centrodestra nazionale, che raccoglieva una parte di ex di Alleanza nazionale e una parte di critici nei confronti del governo Monti. E fu proprio da questo gruppo parlamentare che nacque quello che è oggi Fratelli d’Italia.  Questo gruppo era stato ispirato da Ignazio La Russa, già coordinatore nazionale del PdL e già reggente di Alleanza nazionale. Tra le sue moltissime iniziative legislative, ci piace ricordare quella relativa alla modifica dell’ articolo 200 del codice di procedura penale in materia di tutela del segreto professionale dei giornalisti, oltre a iniziative per la famiglia.

Successivamente Caruso entrò nella Fondazione Alleanza nazionale, facendosi subito apprezzare per la sua competenza giuridica e per il suo rigore professionale. Tra l’altro realizzò lo statuto della Fondazione An e in seguito collaborò e revisionò anche lo statuto di Fratelli d’Italia.

Il dolore dell’amico di sempre Ignazio La Russa

Ignazio La Russa, suo fraterno amico si può dire da generazioni, lo ricorda con molto affetto: “Sì, mio padre e suo padre studiarono insieme a Catania, poi si trasferirono a Milano. Suo padre era giudice di Cassazione. A Milano Caruso si avvicinò al Msi e fu tra l’altro uno dei fondatori della famosa Radio University. Successivamente si avvicinò alla politica attiva diventando prima consigliere provinciale e poi senatore. Era di una competenza professionale spaventosa e sempre disponbile, era il suo carattere. Anche in Senato fece cose egregie e tutti lo ricordano con grandi affetto e stima. Mancherà moltissimo a tutti noi”.

Antonino Caruso lascia la moglie Paola e la figlia Ludovica, Lulù, che ora aspetta un bambino. Alla famiglia vadano le condoglianze più sincere della Fondazione Alleanza nazionale, di Fratelli d’italia, della redazione e direzione del Secolo d’Italia e della nostra comunità.

 

di: Antonio Pannullo @ 23:12


Apr 02 2020

Inps, Urso: “Se gli hacker non c’entrano, perché tirarli in ballo coinvolgendo il Copasir?”

Hacker sì, hacker no. Non è uno scherzo. Sul blocco del sito dell’Inps è giallo dopo che il governo, Conte in persona, ha scomodato l’attacco degli hacker per giustificarsi.

Urso: gli hacker? Se non c’entrano è gravissimo

“Se, come sembra, il blocco della piattaforma digitale dell’Inps non sia dovuto ad un attacco hacker ma solo ad una macroscopica inefficienza, credo che qualcuno debba spiegare molte cose. E perché abbia diffuso in modo improprio un allarme di così tale ampiezza. Che ha coinvolto il Copasir e quindi il Dis, (sistema di informazione sulla sicurezza), su un aspetto così sensibile e importante”. A dirlo è Adolfo Urso vicepresidente del Comitato parlamentare per la sicurezza.

“Conte è un irresponsabile”

“È irresponsabile – continua l’esponente di Fratelli d’Italia – averlo fatto tanto più che gran parte degli esperti aveva subito escluso questa possibilità”. Insomma una bufala.  ”Ma sarebbe ancor più grave – prosegue Urso –  che questa fake news fosse stata deliberatamente alimentata solo quale paravento di una palese inefficienza del sistema. E di chi avrebbe dovuto programmare il servizio a cui l’Inps era stato in tempo delegato. Chiunque l’abbia fatto dovrà stavolta assumersi le proprie gravi responsabilità”.

di: Gloria Sabatini @ 16:29


Apr 02 2020

Morto Gaetano Rebecchini: fu tra i fondatori di Alleanza nazionale e cattolico coerente

Gaetano Rebecchini, scomparso oggi all’età di 95 anni, fu tra i fondatori, nel 1994, di Alleanza nazionale. Lo ricordò lui stesso su questo giornale: Alleanza nazionale fu fondata all’hotel Ergife il 23 aprile 1993 da un gruppo di esponenti della società civile tra cui Gustavo Selva, Domenico Fisichella, Pietro Armani e lo stesso Rebecchini, anche se ufficialmente nacque nel gennio del 1994, sempre a Roma. Rebecchini apparteneva a una importante famiglia romana di politici e ingegneri. Il padre infatti era Salvatore, sindaco democristiano di Roma dal 1947 al 1956, con i voti determinanti dei comsiglieri comunali del Msi.

Rebecchini fu ingegnere, politico, ma soprattutto cattolico

Il fratello più piccolo, Francesco, è stato sottosegretario e senatore della Dc dal 1972 al 1988, e l’altro fratello, era aeditore televisivo nonché presidente della Federazione radio televisioni. Gaetano si laureò in ingegneria a Roma e si occupò dello studio di ingeneria della famiglia. Nel 1976 poi insieme con il fratello Filippo fondò l’emittente televisiva Tele Roma Europa, poi divenuta Super3. Cattolico osservante, dal 1991 al 2011 fu membro della Sacra Consulta e consigliere di Stato della Città del Vaticano.

Presiedeva la Consulta per i problemi etico-religiosi

Come detto, a Fiuggi nel 1995 entrò a far parte del nuovo partito, facendo inserire nelle tesi congressuali il paragrafo scritto da lui: ““Ci sentiamo eredi e siamo cultori della civiltà romana e di quella cristiana che ha il suo fondamento nel messaggio portato da Pietro a Roma e diffuso in Occidente e nel mondo intero”. In quello stesso anno gli fu affidato l’incarico di presidente della Consulta di Alleanza nazionale per i problemi etico-religiosi. Rifiutò la candidatura al Senato per occuparsi della Consulta.

Disaccordi sulla questione della procreazione assistita

Ma nel 2005 ne uscì, in quanto non condivideva la posizione del presidente di An Gianfranco Fini sul referendum abrogativo sulla procreazione assistita. Successivamente, nel 2010, rifiutò di aderire alla nuova formazione di Fini Futuro e Libertà, accusandolo di “deriva relativista”, e in seguito a questo si dimise anche dalla Fondazione FareFuturo. perché “laboratorio dottrinale della nuova formazione politica ideata da Fini”.

Rebecchini e i “valori non negoziabili”

Al 2013 risale una delle sue ultime interviste, come presidente del Centro di orientamento politico di Roma, alla rivista culturale Tradizione, sul problema molto sentito da Rebecchini dei “valori non negoziabili”. Una vita e un impegno politico, quelli di Gaetano, certamente improntati alla coerenza e all’intransigenza rigorosa su alcune questioni. Alla famiglia vadano le condoglianze più sentite della redazione della direzione del Secolo d’Italia.

Il dolore del senatore Gasparri

 “È giunto al cospetto del Signore Gaetano Rebecchini, mancato a Roma all’età di 95 anni. Gaetano Rebecchini ha meriti enormi nel campo dell’impegno sociale, imprenditoriale, culturale e politico. Lui e la sua famiglia hanno dato e danno un contributo essenziale alla vita della Capitale e non solo. A Gaetano Rebecchini la destra politica deve imperitura riconoscenza”. Lo dichiara il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri.

“All’inizio degli anni Novanta – ricorda – è stato protagonista del processo di crescita e maturazione della destra italiana, contribuendo in modo determinante al suo accreditamento nella realtà istituzionale, imprenditoriale e religiosa. Senza Gaetano Rebecchini il miracolo di Alleanza Nazionale non sarebbe stato possibile. E non volle mai né candidarsi alle elezioni né assumere ruoli di governo, che avrebbe ben meritato per le sue indiscutibili qualità”. “Generosità e disinteresse personale, grande spessore umano e morale, capacità di iniziativa in ogni campo, fanno di Gaetano Rebecchini un modello indimenticabile. La destra a lui deve moltissimo ed è doveroso ricordarlo in questo momento in cui Gaetano lascia la terra ma non lascia i nostri cuori e le nostre menti”, conclude il senatore azzurro.

di: Antonio Pannullo @ 13:38


Mar 28 2020

Ristampato “Nati per combattere. Dalla Sapienza a Regina Coeli”. Il racconto di due soldati politici

“Nati per combattere. Dalla Sapienza a Regina Coeli” è un libro del 1999, oggi arricchito e aggiornato. E’ un libro scritto a quattro mani, da Duilio Marchesini e Giancarlo Scafidi, due cattolici tradizionalisti molto noti a Roma. La loro peculiarità rispetto ad altri frequentatori di chiese, è che loro furono disposti tutta la vita a battersi per le loro idee in piazza, contro nemici spietati e sempre soverchianti. Non erano certo neofascisti, ma spesso i loro percorsi, soprtattutto all’università di Roma, si sono incontrati.

Nati per combattere, una storia degli anni di piombo

Correvano gli anni Sessanta e Settanta, e, come scrivono in “Nati per combattere”, il materialismo marxista e ateo, eterodiretto da Mosca, voleva distruggere la società italiana ed europea. Marchesini e Scafidi furono sempre convinti della loro fede religiosa, e per questo si batterono sempre contro quella che loro consideravano la degenerazione della società. All’inizio lo facevano con strumenti culturali, anche all’università, con incontri e dibattiti, poi a loro fu impedito di parlare con la cieca forza, ed è allora, come dice Mordini, il monaco si fa guerriero.

Marchesini e Scafidi si opposero all’ateismo con ogni mezzo

Si opposero con tutti i mezzi alla subcultura marxista, che purtroppo aveva preso piede soprattutto tra i giovani. Si opposero alla droga, al divorzio, all’aborto, alle liturgie moderniste, alla teologia della liberazione. Ma soprattutto si opposero al conculcamento delle idee e alla prepotenza intollerante dei gruppi armati comunisti, che la volevano fare da padrone. Parteciparono alla battaglia di Valle Giulia nel marzo 1968, contrastando le continue occupazioni delle facoltà da parte dei gruppettari. In questo aiutati e sostenuti non solo dal Fuan e dalle organizzazioni di destra, ma anche dagli studenti che volevano studiare.

Gli scontri alla Sapienza nel 1968

“Nati per combattere” è pieno di aneddoti degli scontri all’università, e anche di storie ed episodi alcuni dei quali veramente gustosi. Le battaglie contro i preti marxisti alla abate Franzoni, le irruzioni nelle chiese “moderne”, con tanto di chitarre spaccate e falsi preti schiaffeggiati, le processioni vietate e da loro realizzate, e tantissimi altri episodi di quella Roma diversa. Ma fra tutti rimane storica la spettacolare contestazione alla prima di Jesus Christ Superstar al Teatro dell’Opera. Era il 17 dicembre del 1973. Paolo VI e il Vaticano, tra l’altro, si erano detti “entusiasti” dell’opera.

Jesus Christ superstar e i criceti paracadutati

Gli autori insieme con movimenti di cattolici tradizionalisti, avevano rimediato, chissà come, una trentina di biglietti per la prima. Scrivono gli autori: “Era chiaramente offensivo della dignità di Nostro Signore Gesù Cristo”. La polizia, con il solito commissario Improta, presagiva che qualcosa sarebbe accaduto, e non sbagliava. Fu anche fermata una esponente politica oggi famosa, allora ragazza, con una borsa piena di ortaggi… Appena si spensero le luci, Marchesini si alzò e iniziò a urlare che quello spettacolo era un’offesa a Gesù Cristo, subito imitato da molti altri.

La contestazione al Teatro dell’Opera di Roma

Furono lanciati volantini dalla galleria alla platea, e furono persino lanciati tre criceti con piccoli paracadute che suscitarono un prevedibile pandemonio tra le signore radical-chic, tra le quali c’era anche la moglie del presidente della Repubblica Leone. La polizia accorse in forze e a fatica riuscì a immobilizzare i contestatori. Uno di loro, un ex paracadutista, si era aggrappato alla ringhiera della galleria e pendeva pericolosamente verso il basso. All’uscita, poi, i giovani attesero il critico Gian Luigi Rondi e gli espressero il loro disappunto con lanci di monetine. Tutti i giornali parlarono di quell’impresa. Su uno di loro, c’era la foto dei tre criceti, sani e salvi grazie ai paracadute.

L’esperienza di Regina Coeli come crescita spirituale

Ovviamente tra blocchi stradali, scazzottate, irruzioni nelle chiese, risse continuate, Marchesini e Scafidi finirono almeno sei volte a Regina Coeli. E a questo è dedicata la seconda parte dell ibro. Uno spaccato della disperazione, dell’inumanità, delle condizioni delle carceri italiane. E del tentativo degli autori di confortare i loro “concellanei”, come li chiamano, attraverso le Messe e l’aiuto nel disbrigo delle pratiche burocratiche. Tra rivolte carcerarie, risse, incontri col direttore. Di questa seconda parte pubblichiamo una pagina, per tutti noi molto significativa.

“Ciao Stefano”

Un giorno nella cella dei due autori arriva la comunicazione che sarebbe arrivato dall’isolamento uno dei “nostri”. Ecco che scrivono Marchesini e Scafidi. “E’ stato così che abbiamo incontrato Stefano: 19 anni, intelligente e allegro. Dopo un po’ che stavamo insieme ci sembrava di conoscerlo da sempre. S’era accapigliato per la politica, roba da poco. In 12 giorni era già stato scagionato. Dopo tanti concellanei problematici, averne uno così spensierato significava serenità, conversazione, affinità d’educazione e d’ideali. Insomma significava sentire di meno, molto di meno, il peso del carcere.

“Ci sentivano suoi fratelli”

Da bravo ragazzo qual era, con un pensiero organizzato, Stefano arrivava da solo a risolvere i problemi dell’ambientamento in prigione, ma era per noi motivo di soddisfazione anticipare le sue conclusioni, citando le molteplici esperienze avure fino a quel momento. Ci sentivamo come padri di un figlio e fratelli di un fratello. Anche lui si appassionava alla sua emancipazione e scriveva ai famigliari con entusiamo. Loro nei pacchi aggiungevano cibi per noi, essendo contenti che il vivace figliolo avesse trovato una fortuna in quella disgrazia. Ci è capitato così più di una volta di dover bloccare le sue corse a prendere di petto qualcuno che aveva detto o fatto qualcosa di scorretto, e ciò per evitargli la rituale borttigliata in testa.

“Nacque una sincera amicizia”

Ma, a parte le fioriture di un’indole generosa e retta posta a contatto con le storture di un ambiente, Stefano aiutava chi poteva in mille modi. Privandosi anche di effetti utili e andando incontro a qualche indigenza. Così in poco tempo si era fatto sì la fama di pivello tiracalci, ma soprattutto di amico su cui poter contare in qualsiasi momento. Con lui abbiamo parlato di religione e di politica, di musica e di filosofia durante quei 12 giorni di cella, e anche dopo, incontrandoci nella vita libera. Ma di più avremmo parlato e più spesso ci saremmo visti se avessimo saputo che per Stefano quello era l’ultimo anno di vita. Si trattava di Stefano Recchioni, Parà per gli amici, il ragazzo che perse la vita al Tuscolano la sera del 7 gennaio 1978 insieme a Franco Ciavatta e Francesco Bigonzetti. Ciao Stefano”.

di: Antonio Pannullo @ 14:38


Mar 20 2020

Addio a Flavio Campo di Avanguardia. Il ’68, l’università, Reggio e quello schiaffo a Pasolini…

Flavio Campo se ne è andato l’altra sera a Roma. La notizia si è appresa dai social, dove un suo vecchio amico di un tempo ha comunicato la notizia. Classe 1942, Flavio Campo rappresentava la generazione di attivisti venuta subito dopo quella dei combattenti della Repubblica Sociale, che riempivano le sezioni del Msi, soprattutto a Roma, ma non solo. Campo era conosciutissimo a Roma, stimato e rispettato da tutti, perché aveva una sua etica, seguiva i suoi ideali, era coraggiosissimo, non si tirava indietro quando bisognava essere coerenti in piazza difendendo le proprie idee.

Flavio Campo entrò giovanissimo nel Msi

Giovanissimo, neanche maggiorenne, entrò nella Giovane Italia (organizzazione giovanile del Msi) che allora si trovava all’ultimo piano di Palazzo del Drago in via IV Fontane. Il presidente provinciale era Adalberto Baldoni. In quegli anni, ossia a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, l’attività era più che altro politica, culturale: i giovani organizzavano convegni, dibattiti, riunioni, mostre fotografiche. Si era concentrati contro l’Unione Sovietica, c’era da poco stata la Rivolta in Ungheria, e sulle università. C’era poi la lotta alla droga, che iniziava a fare la sua comparsa preoccupante nelle scuole. Nel nome di una falsa libertà, infatti, le sinistre ne propugnavano l’uso. Quando si accorsero di sbagliare, purtroppo, era però troppo tardi.

Flavio Campo, per le sue capacità organizzative, divenne in breve tempo il capo-attivisti della Giovane Italia di Roma. Un testimone lo ricorda orgnaizzatore e relatore di un convegno a Palazzo del Drago proprio sull’anniversario, forse il quinto, dei fatti della rivolta d’Ungheria. Nel 1962 però Baldoni lascia la presidenza provinciale della Giovane Italia e Flavio Campo si avvicina alla neonata formazione di Stefano Delle Chiaie Avanguardia Nazionale. Non la lascerà più sino alla fine. Divenne vicinissimo al gruppo dirigente di Avanguardia, insieme con altri attivisti famosissimi a Roma.

Flavio Campo conobbe la galera, la latitanza, ma non si fermò mai. Seguì Delle Chiaie in diverse occasioni nella sua latitanza all’estero, perse il suo lavoro al ministero delle Finanze, anche se in seguito fu riassunto in quanto estraneo ai fatti di cui lo imputavano. Era un tipo di poche parole, quasi burbero, parlava solo con la sua stretta cerchia di camerati di Avanguardia, anche se aveva contatti anche con i missini di Roma Sud, zona nella quale era nato e dove abitava.

Fu vicinissmo a Stefano Delle Chiaie

Il suo antico amico di allora, Vincenzo Nardulli, ne ha scitto un bellissimo ricordo su Facebook, corredandolo delle foto che pubblichiamo. Flavio Campo aveva un suo stile: pur essendo indiscutibilmente un uomo d’azione, portava sempre la giacca, e talvolta la cravatta. Era un soldato politico, eseguiva gli ordini a qualunque costo. E in quegli anni era difficile farlo, costretti in venti contro cento ad affrontare gli extraparlamentari di sinistra, e anche le squadre del Pci, che erano piuttosto risolute. Ma lui non si tirò mai indietro. Partecipò alle stagioni del ’68 all’università di Roma, alla rivolta di Reggio del 1970, al golpe Borghese del 7-8 dicembre di quello stesso anno. Secondo Nardulli, Campo partì per arruolarsi nella Legione Straniera ma fu raggiunto da Delle Chiaie che lo convinse a rimanere in Italia.

Gli episodi della vita militante di Flavio Campo sono innumerevoli, ma ne vogliamo raccontare due: uno certamente autentico, raccontato da Adalberto Baldoni, e uno leggendario, ma molto verosimile. Il primo avvenne il 29 marzo 1962 in occasione della prima del film di Pasolini Una vita violenta. Consideriamo che Pasolini, in quegli anni, riteneva i missini solo emarginati e teppisti di borgata. La destra italiana aveva sempre rifiutato l’accostamento destra-violenza, e poi gli anni hanno dimostrato che destra della violenza fu vittima. Comunque si inscenò una contestazione davanti al cinema Quattro Fontane. Ma tutto finì lì.

Quella rissa con Pasolini e Citti

Pochi mesi dopo, invece, ci fu un’altra contestazione della Giovane Italia a Pasolini, in occasione della prima di Mamma Roma. La proiezione fu disturbata sia dalla Giovane Italia sia da Avanguardia Nazionale. All’uscita, Pasolini e Sergio Citti aggredirono i dirigenti giovanili guidati da Flavio Campo. Il quale si difese e schiaffeggiò Pasolini, come si vede nella foto pubblicata da Baldoni nel suo Noi Rivoluzionari. Citti invece ebbe la peggio da parte di un altro esponente di Avanguardia. Tra l’altro, quando uscì il libro di Pasolini Una vita violenta, ci fu la presentazione in un circolo comunista all’Appio. Baldoni, Campo e altri parteciparono massicciamente all’evento, e Baldoni intervenne, parlò, disse la sua e tutto si svolse pacificamente. Dimostrando così che la destra anche estrema era disponibile al confronto delle idee.

La presunta partecipazione al golpe Borghese

L’altro episodio, di cui si favoleggia da anni, riguarda il golpe Borghese dell’Immacolata. Non staremo a ricostruire al vicenda, troppo complessa. Basti ricordare che Avanguardia ebbe l’incarico di introdursi al ministero dell’Interno e poi occuparlo quando il golpe fosse stato in atto. Alcuni attivisti, non sappiamo assolutamente chi, si nascosero nel Viminale sin da qualche ora prima. Dopo la chiusura, si introdussero nell’armeria per poter poi controllare la situazione. E’ ovvio che furono scelti gli uomini più determinati. Poi, come sappiamo. l’operazione fallì, e quegli attivisti si allontanarono senza essere arrestati. Qualcuno dice che portarono con sé un paio di Mab, ma in realtà non furono mai ritrovati, per cui probabilmente è solo una leggenda metropolitana.

Quando Avanguardia concluse la sua parabola storica, Flavio Campo abbandonò la politica. Proseguì il suo lavoro, poi aprì un maneggio fuori Roma, e poi una libreria di area in via Cerveteri, all’Appio, dove lo conobbi qualche decennio fa. Un tipo di poche parole, disgustato dalla politica politicante, poco disposto alle chiacchiere. Ma anche così, traspariva la caratura dell’uomo e del militante. Aveva dei contatti e delle strettisime amicizie anche con esponenti del Movimento politico Ordine Nuovo, ma ormai il momento era passato. Rimane comunque uno delle persone che hanno fatto la storia dell’attivismo romano e italiano. In anni in cui era difficile e pericoloso schierarsi, lui si schierò.

(Nelle foto, fortunosamente giunte fino a noi: a sinistra Flavio Campo sulla scalinata dell’università: è quello di davanti a tutti. A destra, Campo è di spalle aggredito da Pasolini)

di: Antonio Pannullo @ 14:59


Mar 09 2020

Morto a Parma Massimo Zannoni, docente e uomo di cultura. Si oppose allo scioglimento del Msi

Addio a Massimo Zannoni. Se n’è andato improvvisamente uno di quei personaggi sulle cui gambe camminava la storia. Ho avuto la fortuna di conoscere, frequentare ed apprezzare Massimo Zannoni, parmense, presidente e a animatore del Circolo Corridoni. In queste ore gli amici comuni mi chiedevano se vivesse solo. Non proprio, anzi, per niente. Perché vivere in un vero e proprio museo significa accompagnarsi giorno dopo giorno con la storia.

Zannoni non era rautiano ma seguì Rauti

Perché Zannoni era soprattutto un uomo di cultura oltre che un docente. Nella sua casa da una parte si poteva respirare la storia del fascismo, della seconda guerra mondiale e della Repubblica Sociale di cui Massimo possedeva intere collezioni di quotidiani  e riviste. Alcune davvero introvabili, tanto che qualche anno fa scrisse un libro sulla stampa nella Rsi, una autentica bibbia per storici e appassionati.

Era esperto di Rsi e di guerra civile spagnola

Massimo Zannoni variava dalla storia della destra del secondo dopoguerra ad un’altra delle sue grandi passioni, la guerra civile spagnola (era legatissimo all’Ancis). Non mancavano però scaffali dedicati alla Guerra Fredda e al calcio. Tifosissimo crociato da sempre, presidente di club, è stato tra gli ideatori e gli animatori del museo del Parma (che lo ha salutato con un comunicato). Ma ancora arbitro di pallavolo, divoratore di fumetti e grande viaggiatore (era stato recentemente in Corea del nord).
Politicamente impegnato e rispettato da tutti, si iscrisse giovanissimo alla Giovane Italia e poi al Msi, frequentando nel ’68 il Fuan bolognese. Andava orgoglioso di essersi sempre occupato della formazione culturale dei giovani e di aver fatto parte dell’unica Federazione del Msi che non votò lo scioglimento del partito e quindi contro alla svolta di Fiuggi. Mai stato rautiano, seguì invece Pino Rauti nella Fiamma Tricolore.
Ma i suoi capolavori sono la vitalità del Circolo Corridoni che aveva iscritti in tutta la penisola con i suoi incontri culturali del sabato pomeriggio in una sede così calda e vissuta. E poi Orizzonti, il trimestrale del circolo che esce ininterrottamente da decenni, quasi un unicum a destra. Metteva tutto se stesso in questi progetti, metteva a disposizione tutto il suo archivio ed il suo sapere. A Parma lo conoscevano anche per aver insegnato Lettere a migliaia di studenti, tra questi Gigi Buffon con il quale si sentiva spesso.
Un giorno mi donó la sua collezione dell’Italiano di Pino Romualdi. Ora che molti di noi siamo un po’ orfani senza Zannoni, cercheremo di ringraziarlo anche non facendo scemare quello in cui credeva e quello che faceva. In Massimo Zannoni le due cose andavano di pari passo.
(Foto Marco Brioschi)

di: Antonio Pannullo @ 19:19


Mar 02 2020

L’Italia è un Paese bloccato: il Rapporto sulla mobilità sociale ci indica i modi per farlo ripartire

Riceviamo da Mario Bozzi Sentieri e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore,

Dopo gli anni dell’egalitarismo a buon mercato (tutti uguali per mantenere, nella sostanza, le vecchie rendite di posizione, trasmesse di padre in figlio) è tempo di riportare al centro del dibattito nazionale il tema della mobilità sociale, l’unico strumento per ridare all’Italia quella dinamicità ormai persa da decenni e per riaccendere, soprattutto tra le giovani generazioni, aspettative oggi sopite.

A ricordarcelo, dati alla mano, il primo rapporto annuale Global Social Mobility Index sulla mobilità sociale, dal quale emerge come in una società capace di offrire a ciascuno pari opportunità di sviluppare il proprio potenziale, a prescindere dalla provenienza socio-economica, non solo ci sarebbe più coesione sociale, ma si rafforzerebbe anche la crescita economica. Un aumento della mobilità sociale del 10% spingerebbe infatti il Pil di quasi il 5% in più in 10 anni.

Sono ben poche, tuttavia, le economie che hanno le condizioni giuste per favorire la riduzione delle disparità e l’inclusione. Le chance di una persona nella vita sono sempre più determinate dal punto di partenza, cioè dallo stato socio-economico e dal luogo di nascita. Di conseguenza le disuguaglianze di reddito si sono radicate e le classi sociali sono “ingessate”.

Alle spalle di Cipro, Lettonia, Polonia

E veniamo all’Italia. Nell’indice di mobilità sociale, il nostro Paese ottiene un punteggio di 67, con cui supera di poco Uruguay, Croazia e Ungheria e resta alle spalle di Cipro, Lettonia, Polonia e Repubblica Slovacca. L’Italia segna la sua migliore performance nell’ambito della salute, potendo contare sul nono posto per la qualità e l’accesso alla sanità e sul quarto posto per l’aspettativa di vita. In termini di accesso all’istruzione, qualità ed equità, il nostro Paese da un lato gode di un buon ratio studenti-insegnanti, dall’altro – rileva il rapporto – da “una mancanza di diversità sociale” nelle scuole, che non favoriscono cioè l’inclusione tra ceti diversi. Un’annotazione che pare trovare riscontro anche in recenti fatti di cronaca, che hanno sollevato l’accusa di scuola “classista”.

Tra i punti deboli anche l’alta percentuale di inattivi (Neet, né al lavoro né in formazione) tra i giovani (quasi il 20%) e le scarse possibilità di formazione continua, che limitano le opportunità di apprendimento per i lavoratori. Solo il 12,6% delle aziende – sottolinea il rapporto – offre una formazione formale e per i disoccupati è difficile accedere a corsi per migliorare le competenze. Tra le aree su cui intervenire figura, ovviamente, quella delle opportunità di lavoro, dove l’Italia è al 69mo posto, penalizzata dagli alti livelli di disoccupazione.

Immobilismo sociale

In sintesi: ad uscire fuori è la fotografia di un Paese che tende all’immobilismo sociale. E quindi raffredda le aspettative e le ambizioni della società. Frustrando l’accessibilità alle varie posizioni sociali. Attraverso una serie di vincoli strutturali, riconducibili all’autoreferenzialità dei diversi gruppi professionali. Alla cooptazione delle classi dirigenti, ad un sostanziale rigidità dei cosiddetti “processi ascensionali”.

Che fare? Per far ripartire l’ascensore sociale, il rapporto consiglia, tra le altre misure, di rafforzare la progressività delle tasse sui reddit. E poi riequilibrare le fonti di tassazione. Introdurre politiche che contrastino la concentrazione di ricchezza. Puntare sull’istruzione e sulla formazione continua, migliorando la disponibilità, la qualità e la diffusione dei programmi educativi. Sarebbe poi necessario offrire una protezione a tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro stato occupazionale. In particolare nel contesto del cambiamento tecnologico e delle industrie in transizione. Le aziende, dal canto loro, dovrebbero avere un ruolo guida. Promuovendo una cultura di meritocrazia nelle assunzioni. Fornendo formazione professionale, migliorando le condizioni di lavoro e pagando salari equi.

Da parte nostra vorremmo aggiungere una necessità di fondo: fare sistema. Creare, insomma, quei doverosi collegamenti territoriali, interaziendali, di categoria, in grado di favorire le sinergie sistemiche nell’ambito della scuola, della ricerca, della formazione, dell’accesso al credito, della selezione della classe dirigente. Con al fondo la consapevolezza di quanto sia necessario investire per favorite quella mobilità interna, capace di creare nuova ricchezza reale e aspettative vere in  un Paese altrimenti destinato ad un cronico immobilismo. Senza una nuova dinamicità, è la stagnazione sociale a vincere, una stagnazione ben più grave di quella produttiva.

di: Aldo Di Lello @ 14:07


Feb 27 2020

Fragalà, il ricordo, commosso, dei parlamentari: da Fdi al Pd, da Italia Viva a Lega, da M5S a Fi (video)

«Il 26 febbraio di dieci anni fa, dopo tre giorni di sofferenza, scomparve Enzo Fragalà. Ciao Enzo, noi oggi siamo qui anche in tuo nome. E per le tue battaglie». Così Federico Mollicone, parlamentare di Fratelli d’Italia ed ex-collaboratore di Enzo Fragalà, ha ricordato il deputato di Alleanza Nazionale assassinato nel febbraio 2010 da Cosa Nostra.

Un gesto, quello del ricordo in aula, che ha unito, ieri, a dieci anni dall’omicidio di Enzo Fragalàtutti i gruppi parlamentari. Uno dopo l’altro, i colleghi di Enzo Fragalà si sono alzati in piedi. Ed hanno portato la propria testimonianza. Ricordando lo stile di Enzo. Il coraggio di quest’uomo mite, dolce e sempre sorridente.
La sua ansia di verità. Che lo ha spinto a combattere, spesso in minoranza, per battaglie di principio. Senza chiedersi che prezzo avrebbe pagato.

La grande umanità di Fragalà, un galantuomo siciliano

La sua cortesia da galantuomo siciliano. La sua cultura smisurata che non faceva mai pesare. E, poi, la sua competenza in vicende complesse e delicatissime. Come quelle relative al terrorismo e alle stragi.
Il suo senso della solidarietà. La sua umanità che, unita ad una grandissima intelligenza, gli consentiva di dialogare con chiunque, di trovare, comunque, un modo per parlarsi. Aldilà di tutto, aldilà delle appartenenze politiche e ideologiche.
«Una straordinaria persona perbene», come lo ha definito l’esponente di Italia Viva, Roberto Giachetti.

«Enzo fu penalista di fama, assistente di Storia contemporanea dell’Università degli Studi di Palermoparlamentare di Alleanza Nazionale per tre legislature», ha ricordato Mollicone in aula.

«Cresciuto politicamente nel Movimento Sociale», ci ha tenuto a precisare il deputato di FdI. Ricordando come «alcuni colleghi condivisero con me e con lui un percorso di vita professionale e politica».

Deputato infaticabile, impegnato in una miriade di attività

Enzo Fragalà, ha aggiunto Mollicone, era un «infaticabile deputato. E militante dei nostri colori. Fui onorato di lavorare con lui. Era un uomo impegnato in miriadi di attività». Un uomo «di grande coraggio, stile e cultura».

L’esponente di FdI ne ha tratteggiato l’aspetto umano. E anche quel suo «intercalare, che forse in pochi ricorderanno. Quando, con la sua cortesia da gentiluomo siciliano, si rivolgeva a qualche amico, a qualche collega, a qualche avventore con “mii, complimenti”.

Enzo Fragalà aveva una vita intensa. «Come avvocato seguiva moltissimi processi di mafia – ha detto Mollicone – La sua lotta fu un doppio binario. Il primo verso la Cupola e contro la Cupola mafiosa. Il secondo verso chi, con la scusa dell’antimafia da vetrina, ci costruì una carriera. Proprio in un contesto di mafia ha perso la vita».

«Ci auguriamo finalmente, dopo dieci anni, un’adamantina soluzione del processo, così da dare giustizia all’uomo, al politico e ai suoi cari – ha concluso MolliconeGrande esperto di terrorismo, fu componente delle più importanti e prestigiose Commissioni parlamentari d’inchiesta. La Commissione Stragi, la Commissione parlamentare d’inchiesta concernente il dossier Mitrokhin. Cioè il cosiddetto Dossier Impedian.

Esperto di terrorismo, membro delle Commissioni d’inchiesta

«Condividiamo quindi con Marzia Fragalà e la sua famiglia quest’ansia di verità. Che possa ristabilire l’onore. Quella verità che, per tutta la vita, Enzo Fragalà ha sempre cercato. Ciao Enzo, noi siamo qui anche in tuo nome e per le tue battaglie».

Al ricordo di Mollicone si sono uniti, con interventi appassionati, parlamentari di tutte le altre forze politiche.
Roberto Giachetti, di Italia Viva, conobbe Fragalà quando per lui era la prima legislatura e, per Enzo, l’ultima. Si incrociarono in Parlamento. E avevano, certamente, una cosa in comune che li univa nonostante le appartenenze politiche diverse. Una visione garantista in un contesto per buona parte manettaro.

Di qui il ricordo di «una straordinaria persona perbene. Di una persona che consente di utilizzare delle espressioni che sono ormai desuete. Cioè non solo un gentiluomo, come ha ricordato Mollicone. Ma, anche, un galantuomo».

«Una persona di grande sensibilità e di grande disponibilità – ha aggiunto Giachetti – Una persona con delle grandi qualità dal punto di vista dell’interpretazione garantista del nostro diritto e della vita democratica».

Giachetti (IV): persona di grande nobiltà d’animo

«Il processo, a distanza di dieci anni, sembra che si stia per arrivare a una prima sentenza – ha ricordato ancora Giachetti – E, dagli atti del processo, emerge una cosa tra le altre». Il fatto che Fragalà ha cercato di «di indirizzare i suoi clienti verso un’apertura nei confronti della magistratura. Cioè di collaborare con la magistratura. Questo ne nobilita anche la persona. Questo Parlamento ha consentito anche al Paese il servizio di tante persone perbene. Galantuomini, che non necessariamente fanno parte della casta».

Poi è stata la volta della leghista Barbara Saltamartini. «Ho avuto l’onore di conoscere Enzo Fragalà – ha esordito – Lui ci ha insegnato che si può morire per difendere i propri ideali. Per portare avanti le proprie battaglie. Nella convinzione che la lotta alla mafia si deve fare senza “se” e senza “ma”. E non si deve avere paura di combatterla nel profondo. Ogni giorno. Non solo nella professione che si svolge, quale quella che svolgeva Enzo. Ma proprio come persona. Come uomo. Come quel gentiluomo che Enzo Fragalà è stato. Quel gentiluomo che ha sempre anteposto prima il bene della Nazione. Prima il bene dell’Italia. E, poi e solo dopo, il bene del partito nel quale militava, in cui anche io ho avuto l’onore di stare».

Enzo Fragalà ci ha insegnato – ha continuato la Saltamartini – che la lotta alla mafia, la lotta alla criminalità organizzata non può terminare con un atto parlamentare, seppure importante, seppure autorevole. Ma deve proseguire in una battaglia culturale. Deve proseguire nelle battaglie che lui stesso e molti dei giovani che seguirono Enzo in quell’avventura hanno fatto e continuano a fare. Nelle strade delle città. Dove la mafia regna più che in altri posti. Dove quei giovani ancora oggi continuano a ricordare il sacrificio di uomini di Stato. Penso a Falcone e Borsellino. Ma, purtroppo, l’elenco è ancora più lungo».

Saltamartini (Lega): ci ha insegnato a fare politica con il sorriso

«Enzo ci ha insegnato che si può fare politica con la cortesia, con la gentilezza, con il sorriso. – ha concluso Barbara Saltamartini – Senza perdere di vista l’obiettivo da raggiungere. Ecco forse quest’Aula, anche con l’esempio di Enzo Fragalà, un po’ di quello stile di fare politica lo potrebbe recuperare, nel momento in cui lo ricorda proprio oggi, a dieci anni dalla sua morte».

Anche Stefania Prestigiacomo, parlamentare di Forza Italia, siciliana come Fragalà, ha voluto ricordare Enzo. Con il quale aveva «un’amicizia che non si dimentica», il «privilegio della sua consuetudine. Chi ha trascorso con lui tante ore di lavoro e di impegno politico non si potrà rassegnare mai per averlo perso».

«Enzo era una persona pulita, integra, intelligente, allegra – lo ha tratteggiato la parlamentare di Fi – Ce l’ho davanti agli occhi. Con il suo sorriso contagioso, con il quale riusciva ad addolcire ogni situazione. Anche la più ostica. Con quell’arguzia con la quale dipanava, anche grazie alla sua grande cultura giuridica, le questioni più complicate».

«Era un grande liberale di destra, Enzo. Un intellettuale brillante. Che arricchiva la politica e chi gli stava accanto. Era un uomo di diritto e delle istituzioni. Era un uomo che si batteva per la Giustizia. Memorabili le sue battaglie da parte civile nel processo dell’omicidio di Marta Russo. Memorabile il suo impegno nel processo sulla strage di Bologna».

Prestigiacomo (Fi): onore e verità le sue stelle polari

«Enzo Fragalà era una persona che, della verità e dell’onore, aveva fatto le sue stelle polari – ha concluso la Prestigiacomo – Un uomo che aveva il culto sacro dell’amicizia. Che stava sempre dalla parte della giustizia e delle istituzioni. Fino all’ultimo. Per questa sua coerenza e per questa sua integrità è stato ucciso brutalmente. Enzo ci manca. Oggi come il primo giorno. Siamo tutti più poveri d’affetto, di intelligenza e anche più soli».

Per l’ex-sindaco di Torino ed esponente storico del Pd, Piero Fassino, Enzo Fragalà era «un parlamentare scrupoloso», un «uomo aperto sempre al confronto», un «garantista vero». Un «uomo soprattutto sempre disponibile ad ascoltare le ragioni altrui. A capirne le ragioni. E a confrontarsi e a discutere».

«Stimato» e «stimolante, nella sua curiosità e nella sua capacità di sollecitare la ricerca comune di sintesi dei punti, che consentissero di approdare a delle soluzioni utili ai cittadini e al Paese».

Fassino ha ricordato Enzo accomunandolo a Mirko Tremaglia, entrambi «di profonde e assolute convinzioni» che rivendicavano «con orgoglio». Persone «appassionate e sincere» nelle «proprie determinazioni».

Fassino (Pd): garantista vero, disponibile a confrontarsi

Fragalà come Tremaglia, per Fassino, avevano una «visione e una concezione alta della politica».

Altrettanto commuovente l’intervento di Francesco D’Uva, parlamentare dei Cinque Stelle e membro della Commissione Antimafia. Che ha svelato come si è imbattuto nel nome di Enzo Fragalà. Che non ha conosciuto personalmente.

Cercava notizie su suo nonno, Nino D’Uva, penalista come Enzo Fragalà. Venne assassinato dalla mafia nel suo studio legale a Messina il 6 maggio 1986. Difendeva alcuni imputati di mafia nel maxiprocesso.

Sette anni dopo, nel 1993, un pentitò svelò il motivo di quell’omicidio: un segnale di intimidazione all’avvocatura messinese.
Anche in quel caso la mafia aveva cercato di depistare. Facendo immaginare uno sfondo passionale.

D’Uva (M5S): ucciso perché aveva la schiena dritta

«Cercando su Internet trovai “I quaderni dell’ora”, in cui c’erano diversi nomi – ha ricordato D’Uva in aula parlando di Enzo – scoprii che c’era un altro avvocato penalista. Una morte più recente. Un avvocato che era morto sempre per mano mafiosa». Era, appunto, Enzo Fragalà.

«Quello che apprezzo molto di Enzo Fragalà è che, evidentemente, aveva la schiena dritta». ha detto il parlamentare M5S.
«Perché – ha aggiunto – se un avvocato penalista che ha a che fare con imputati per associazione mafiosa, finisce per essere ucciso, e si scopre nel 2017, secondo le ipotesi, perché cercava di convincere i propri clienti a collaborare con la giustizia, è evidente che la lotta alla mafia è trasversale».

«Dico una cosa quasi scontata, però, in realtà, non lo è – ha concluso D’Uva, colpito dalla storia di Enzo Fragalà – Perché molto spesso si tende a demandare, a dire “va bene, la lotta alla mafia la fai tu. Io tifo per te, mi faccio lo striscione, mi faccio la manifestazione. Ma pensaci, tu te ne devi occupare”. Non è così. Ognuno di noi può farlo. Semplicemente tenendo la schiena dritta. Questo è stato Enzo Fragalà».

Infine Vittorio Sgarbi. Che con Enzo Fragalà condivideva identiche posizioni garantiste.

Sgarbi: era un uomo limpido e laicamente lucido

«Fragalà era un uomo laicamente lucido nel riconoscere i diritti di chiunque. E difendere cause difficili. Era più innocentista che colpevolista. Era un uomo limpido. Un garantista vero», lo ha omaggiato Sgarbi.

«C’era in lui la visione nobile e vera di chi non crede a chi pensa che l’onestà sia l’unica soluzione per affrontare la politica – ha continuato il critico d’arte approdato alla politica – Fragalà è stato un uomo talmente limpido, che il suo nome non può essere accostato, se non a quello, forse, di Marco Pannella. Cioè di persone pronte a combattere perché sia meglio libero un colpevole che un innocente in galera. È esattamente l’opposto di quello che questo Parlamento».

La figlia Marzia: colpita e commossa, in quelle parole riconosco papà

«Sono felice e commossa allo stesso tempo – ha commentato Marzia Fragalà, figlia di Enzo e, anche lei, avvocato penalista – per le parole bellissime, intense e di grande spessore pronunciate da tutte le forze politiche in Parlamento. Che hanno voluto ricordare così mio padre in una giornata molto intensa e complicata. In quelle parole ho ritrovato pienamente la figura di papà. E mi hanno colpito anche le parole pronunciate da chi, con lui, ha avuto magari scontri politici. Ma ha saputo cogliere l’umanità, la disponibilità al dialogo, la limpidezza e il senso della giustizia che animavano mio padre».

di: Silvio @ 18:14


« Pagina precedentePagina successiva »