Dic 21 2019

Aldo Di Lello @ 12:24

PIAZZA FONTANA OLTRE LA RICORRENZA-2. Ombre inglesi sulla strategia della tensione

Molteplici sono le chiavi di lettura per la strage di piazza Fontana. Perché molteplici sono gli interessi in gioco. «Diciamolo: le grandi stragi compiute in Italia non sono opera di bande di ragazzi. Ma grandi operazioni politiche progettate nelle capitali di Paesi che avevano interesse a tenerci sotto scacco». A parlare così è il giudice Rosario Priore, un magistrato che ha indagato sui grandi misteri della Repubblica. Titolare dell’inchiesta sulla strage di Ustica, ha condotto indagini anche sulle stragi di matrice mediorentale. Oltre a interessarsi delle Brigate Rosse e del fenomeno delle bande armate negli anni Settanta.

Priore è uno di quelli che hanno provato a guardare con più convinzione al di là dei confini nazionali. A suo parere, risposte decisive, per piazza Fontana e oltre, sono conservate negli archivi di Londra e di Parigi, oltre che in quelli di Washington.

Possibile mai? Che interesse potevano avere Gran Bretagna e Francia, alleate dell’Italia, a destabilizzarci? La chiave sta nel Mediterraneo e nel controllo delle sue rotte energetiche.

Piazza Fontana e i concorrenti dell’Italia

La conflittualità tra il nostro Paese e questi due ingombranti “coinquilini” nel controllo di quest’area strategica è di vecchia data. Ed rintracciabile fin da quando l’Italia, da poco unificata, cominciò -ed erano gli ultimi decenni del XIX secolo- a immaginare una sua proiezione geopolitica nel mare che ne circonda le coste.

Questo contrasto d’interessi non s’è affatto attenuato nel dopoguerra. E neanche nel periodo immediatamente successivo. Anzi, per certi versi, s’è anche acuito. E ciò per effetto della corsa all’approvvigionamento di gas naturale e petrolio negli anni del nostro decollo industriale. L’Italia, pur mortificata dal Trattato di pace del 1947, non rinuncia, già qualche anno dopo, a curare i propri interessi energetici attraverso politiche dinamiche e aggressive. Recuperiamo, lungo l’asse mediterraneo, quell’autonomia in politica estera che non c’è consentita lungo l’asse Est-Ovest, quello della contrapposizione tra i blocchi della guerra fredda.

Diverse partite e diversi rischi per l’Italia prima di piazza Fontana

Rosario Priore, in un libro intervista curato da Giovanni Fasanella, Intrigo internazionale (Chiarelettere 2010) sottolinea in tal senso il ruolo svolto da grandi protagonisti della storia italiana del secondo Novecento. «Cito innanzi tutto Enrico Mattei, che ha attuato una politica di potenza e di espansione in tutta l’area, con metodi che irritavano gli altri Paesi occidentali. E poi colui che gli è succeduto negli obiettivi politici: Aldo Moro. Anche le sue iniziative entrarono in conflitto con tutti coloro che avevano interessi forti e consolidati nel Mediterraneo». A questo punto nota Fasanella: «I due maggiori protagonisti della linea di espansione italiana nel Mediterraneo sono stati entrambi assassinati».

Una domanda sorge spontanea: che c’entra tutto questo con piazza Fontana e con la strategia della tensione? C’entra, eccome se c’entra. Innanzi tutto perché, nella strategia della tensione, si «giocano diverse partite», come dice Priore. E la partita mediterranea, sul finire degli anni Sessanta, espone l’Italia a possibili attacchi terroristici allo stesso modo in cui la espongono sia la partita della guerra fredda sia la partita interna, quella cioè dei tentativi di stabilizzazione moderata. È plausibile in tal senso pensare che un’eventuale iniziativa di destabilizzazione proveniente da soggetti stranieri sia avvenuta con l’avallo o quanto meno la conoscenza degli altri soggetti interessati a tenere sotto scacco l’Italia. Soggetti che hanno seguito la vicenda da dentro o da fuori i confini nazionali. In tale prospettiva, anche il caso Moro può essere a pieno titolo considerato come uno dei capitoli del grande libro nero della strategia della tensione.

La guerra civile in Italia

Quando s’inizia a scrivere questo libro nero della destabilizzazione? Il prologo lo troviamo nella guerra civile del biennio 1943-1945. Secondo lo storico militare Virgilio Ilari (Guerra civile, Ideazione 2001) in quegli anni si combattono due distinti conflitti intestini. Quello tra fascismo e antifascismo e quello tra comunismo e anticomunismo. Uno dei primi, tragici episodi di questo conflitto parallelo, è l’eccidio di Porzus, con i partigiani comunisti che sterminano i partigiani bianchi della brigata Osoppo.

Va da sé che la contrapposizione tra comunisti e anticomunisti diventa nel dopoguerra, parallelamente allo scontro politico alla luce del sole, anche guerra civile virtuale o a bassa intensità. «È certo che una componente della Resistenza comunista, quella che aveva in Pietro Secchia il proprio punto di riferimento, aveva concepito la guerra contro il nazifascismo solo come una tappa di un processo rivoluzionario che doveva proseguire». Così afferma Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione stragi dal 1996 al 2001, nel volume La guerra civile (Bur- Rizzoli 2005).

Dalla Volante Rossa alle Brigate Rosse

In quegli anni torbidi e violenti operano formazioni semi-clandestine come la Volante Rossa che seminano sangue nell’Italia del Nord. Per non parlare degli eccidi nel Triangolo della morte e in altri luoghi rimasti tristemente nella memoria italiana. Interessante quanto Pellegrino nota sul legame tra terroristi del dopoguerra e terroristi degli anni Settanta e Ottanta. «Sono sempre più convinto, come lo era Enrico Berlinguer, che un filo leghi la Volante Rossa al terrorismo di sinistra degli anni Settanta».

Neanche sull’altro fronte, quello anticomunista, si rimane con le mani in mano. Ci si attrezzava invece, con convinzione e preoccupazione, a sostenere la guerra civile a bassa intensità. Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta viene organizzata una rete di “volontari civili” con il compito di fare controguerriglia e affiancare l’Esercito nel caso di un tentativo insurrezionale comunista. Questa struttura durerà pochi anni. Perché sarà assorbita da Stay Behind (meglio nota con il nome in codice di Gladio) e sarà posta sotto il diretto controllo della Nato. Questa prima struttura è presieduta dal generale Giuseppe Pièche, dell’Arma dei carabinieri, e organizzata da Edgardo Sogno, che è stato volontario fascista durante la guerra di Spagna per poi diventare, cambiando fronte, partigiano monarchico durante la guerra civile del 1943-1945. Sogno è in «ottimi rapporti con Allen Dulles capo dell’OSS (il servizio segreto Usa durante la guerra n.d.r.) , che lo finanzierà abbondantemente negli anni Cinquanta, e frequenterà un corso di guerra psicologica al Nato Defense College di Parigi» (Angelo Ventrone, La strategia della paura, Mondadori 2019).

Le strutture contrapposte dei comunisti e degli anticomunisti rimangono però sostanzialmente inattive per tutti gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta.

L’attentato a Enrico Mattei primo atto della strategia della tensione

Dove la strategia della tensione batte un primo, inquietante colpo è nella partita mediterranea ed energetica. Nel 1962 muore in circostanze “misteriose” il fondatore dell’Eni Enrico Mattei. Ufficialmente si parla di incidente. E si fa di tutto, all’epoca, per accreditare questa versione chiudendo frettolosamente l’inchiesta. Molti anni dopo si accerterà che si è in realtà trattato di un sabotaggio al suo aereo personale, caduto il 27 ottobre a Bascapè, in provincia di Pavia. Una nuova inchiesta, aperta nel 1997, stabilirà che il velivolo fu «dolosamente abbattuto», senza però poter indicare né i mandanti né gli esecutori materiali.

L’attentato a Mattei rimane comunque un fatto devastante per l’Italia. Un fatto che inaugura la triste serie dei “misteri italiani”, annunciando che qualcosa di pericoloso s’è messo in moto dentro e fuori i confini nazionali. Il messaggio in codice è semplice quanto minaccioso: «Attenti a come vi muovete, non sarete mai una media potenza dotata di vera autonomia».

L’insieme delle compagnie petrolifere occidentali (le famose Sette Sorelle) si sente minacciato dall’attivismo del presidente dell’Eni. Ma chi la prende realmente male è il governo britannico. E non solo in vista degli interessi delle “sue” compagnie, la Shell e la British Petroleum, ma anche per la diversa (e contrapposta) visione geopolitica che emerge dall’azione di Mattei. Una visione che punta ad abbattere una volta per tutte il neocolonialismo e che imposta su una visione di parità e di reciproco rispetto i rapporti tra potenze occidentali e potenze emergenti del Terzo Mondo. Un vero e proprio “oltraggio” nelle prospettiva delle ormai anacronistiche visioni “imperiali” della Gran Bretagna e della Francia. Visioni che suscitano l’irritazione anche degli Stati Uniti. Non sarà certo per caso se il presidente Eisenhower non muoverà un dito per salvare la Francia dal disastro vietnamita a Dien Bien Fu. E se, sempre gli Usa, stroncheranno ferocemente l’improvvida aggressione anglo-francese all’Egitto nella crisi di Suez del 1956.

In quegli anni di vorticosi cambiamenti, uomini come Mattei riescono a inserire l’Italia tra le potenze evolutive ed emergenti della scena mondiale. E si tratta di una linea che rende vicina l’Italia agli Stati Uniti più di quanto comunemente non si pensi.

«L’Eni è una crescente minaccia agli interessi britannici»

Ma è alla Gran Bretagna, prima fra tutti, che la nuova via italiana suscita crescente ostilità. Il nervosismo britannico verso la politica di Mattei è ben ricostruito da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella nel volume Il golpe inglese (Chiarelettere 2014). Gli autori raccontano le trame britanniche ai nostri danni sulla base della desecretazione degli archivi di Londra avvenuta in anni recenti.

Particolarmente inquietante, tra gli altri documenti, la nota di un alto funzionario del ministero dell’Energia britannico, tal Alexander Jarratt: «L’Eni sta diventando una crescente minaccia per gli interessi britannici». A quel punto, suggerisce Jarrat, la soluzione è affidarsi «all’intelligence», piuttosto che al Foreign Office. Questa nota è stata redatta qualche settimana prima la morte di Enrico Mattei. Poco per giustificare un’accusa. Ma abbastanza per sollevare preoccupanti interrogativi.

Dal golpe in Libia nel 1969 alla strage di piazza Fontana

Le ombre inglesi sulla strategia della tensione è possibile rintracciarle anche nella strage di piazza Fontana. Si tratta solo di una congettura. Ma un motivo ci sarà pure se il giudice Priore ha ritenuto di esplicitarla. Il magistrato coglie un significato inquietante nella successione cronologica tra il colpo di Stato in Libia, nel settembre del 1969, e la strage di piazza Fontana, avvenuta tre mesi dopo. «Secondo un’ipotesi non provata, dietro la strage di piazza Fontana ci sarebbe un mandante inglese». Il golpe libico –ormai è accertato- è stato organizzato in Italia, per la precisione in un albergo di Abano Terme. E ci sarà sicuramente stata la mano dei servizi italiani. L’obiettivo era quello di scalzare il filo-britannico Re Idris per sostituirlo con il “filo-italiano” colonnello Gheddafi. Di qui la “vendetta” britannica?

Non ci sono riscontri certi. Ma c’è abbastanza materiale per far avvertire, nella strategia della tensione, un certo odore di petrolio. Un odore portato dai venti del Mediterraneo.

Non sono i soli venti che spirano in quegli anni sull’Italia. Ci sono anche i venti di Parigi e i venti dell’Est. Tutti questi venti concorreranno a creare la bufera delle Brigate Rosse. Ne parleremo nella prossima puntata.

(2-Continua)