Nov 12 2019

Ci ha lasciato Luigi Turchi: dalla Decima Mas di Borghese a deputato del Movimento Sociale

Lutto nel mondo della destra. È scomparso all’età di 94 anni a Roma Luigi Turchi, protagonista delle battaglie del Movimento Sociale Italiano. Turchi fu il fondatore, con il padre Franz Turchi, nel 1952, del Secolo d’Italia. Luigi ne fu il direttore amministrativo fino al 1965. Laureato in Giurisprudenza, fu giornalista, scrittore e deputato del Msi per tre legislature. Classe 1925, partecipò a tutte le battaglie della destra italiana negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Spesso è ricordato per un episodio “epico” del Msi, avvenuto il 16 marzo 1968 a Roma. Quel giorno, era proprio il suo compleanno, Luigi Turchi insieme con Almirante, Massimo Anderson e Caradonna, guidò i giovani missini negli scontri all’università. I missini infatti occuparono la facoltà di Lettere, feudo della sinistra, in contrapposizione al Movimento studentesco. Ma Turchi, pur essendo un uomo d’azione e una grande politico, era molto più di tutto questo.

Turchi proseguì la tradizione della Befana fascista

Ci piace ricordare che per molti anni, dopo la guerra, organizzò le famose Befane Tricolori. Eredi naturale dell’altrettanto famosa Befana Fascista voluta da Benito Mussolini. Di cosa si trattava? Erano dei pranzi organizzato il giorno dell’Epifania da Turchi e altri esponenti missini in grandi alberghi della capitale e al palazzetto dello sport. A questi pranzi parteciparono anche duemila persone. Si trattava degli iscritti al Msi di Roma e dei loro figli, ai quali alla fine dell’incontro venivano consegnati pacchi dono bellissimi. E lui, insieme ad altri parlamentari del Msi, intrattenva questi bambini e gli consegnava i doni. Inutile dire che Luigi Turchi era il massimo finanziatore di questa iniziativa, da quell’uomo generoso che era. Negli anni successivi, quando il clima politico si inasprì, Turchi era sempre pronto ad accorere nelle sezioni del Msi attaccate. In particolare, frequentava, tra le altre, anche la sezione Marconi, la “Ezio Maria Gray”, spesso oggetto di attentati dinamitardi. E Turchi per primo dava un contributo per la ricostruzione della sede.

Turchi fu parlamentare attivissimo e corretto

Ma Luigi prendeva con serietà anche il suo impegno parlamentare. Era attivo, per così dire, in piazza e in parlamento. Nelle sue tre legislature alla Camera ha presentato ben 165 progetti di legge, intervenendo in aula 65 volte. Come scrisse qualche anno fa la Piazza d’Italia, giornale fondato dallo stesso Turchi, “è stato  un lavoratore infaticabile, dai tempi della X Mas, alle attività del giornalismo mai cessata. La grandezza di un uomo che si è dedicato per una vita ai diritti degli italiani, senza mai venirne meno. Cercando sempre la soluzione a tutti i problemi che sono venuti negli anni. Dell’onorevole Luigi Turchi si ricordano le numerose leggi per i reduci di guerra, eroi della patria che hanno combattuto per la bandiera”.  Trovò anche il tempo tra i suoi numerosi impegni per scrivere diversi saggi. Tra questi ricordiamo certamente “Incontro con il Nemico”. Successivamente fu Commissario generale per l’Esposizione Internazionale di Tsukuba 1985 ,dell’Esposizione di Vancouver 1986, di Brisbane 1988 e dell’Expo di Siviglia 1992.

Le commosse condoglianze di Fratelli d’Italia

Tutto il mondo della destra commossi per la morte di Luigi Turchi. Tra i primi interventi, quello del capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida. “A nome mio e del gruppo di Fratelli d’Italia alla Camera le più sentite condoglianze per la scomparsa di Luigi Turchi, figlio di Franz, fondatore de Il Secolo d’Italia. Già parlamentare del Movimento sociale italiano, fu imprescindibile punto di riferimento della destra romana e nazionale. Ai familiari e ai suoi cari, l’abbraccio di tutti noi”. Condoglianze sentite anche dal vicepresidente del Senato e senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa. “Esprimo le mie sentite condoglianze per la scomparsa di Luigi Turchi, figlio di Franz, fondatore di Il Secolo d’Italia. Luigi Turchi fu parlamentare del Msi e figura di spicco della destra romana e nazionale. Al figlio Franz e ai suoi familiari giungano le mie sentite condoglianze”. A nome della Fondazione Rivolta Ideale il senatore Domenico Gramazio si associa alle condoglianze per la morte dell’onorevole Turchi.

I funerali di Luigi Turchi si terranno domani alle ore 12 presso la parrocchia di sant’Eugenio.

di: Antonio Pannullo @ 18:16


Set 02 2019

Addio a Ennio Rosati, 15enne nella Rsi e colonna della sezione Garbatella del Msi

Ennio Rosati, nato a Roma il 21 ottobre 1930, ci ha lasciato ieri dopo una vita intensa, sempre al servizio del suo Ideale. Tutti a Roma conoscevamo Ennio, che fu maestro di vita per più di una generazione di attivisti del Movimento Sociale Italiano. Ma lui veniva ancora da più lontano: dalla Repubblica Sociale italiana, dalle Fiamme Bianche nelle quali si era arruolato seguendo il padre Romolo, tenente della Milizia postale della Rsi, prima a Ferrara e quindi a Brescia dove Romolo fu arrestato. “Ricordo – ci disse Ennio qualche anno fa – che gli portavo da mangiare in carcere”.

Ennio ha sempre abitato nei “lotti” della Garbatella, oggi quartiere modaiolo ma che nei decenni passati fu solidamente operaio. La Garbatella, di cui tra pochi mesi celebreremo il centenario della fondazione, è un sogno non completamente compiutosi: su progetto di Paolo Orlando, presidente dello Smir (Sviluppo Industriale e Marittimo di Roma), doveva realizzarsi un canale navigabile che partendo da Ostia si sarebbe attestato nell’area alle spalle della Basilica di San Paolo con la costruzione del nuovo porto urbano. A questo progetto fu affiancato quello di quartieri operai sull’esempio delle città giardino inglesi per ospitare le famiglie delle maestranze impiegate nella nascente area industriale di Ostiense. I primi lotti di Concordia, questo era il nome originale della Garbatella, nacquero tra il 18 febbraio 1920 e il 1922 dall’idea progettuale originale di Orlando a cui si affiancarono Innocenzo Costantini, Massimo Piacentini e Gustavo Giovannoni. Con alterne vicende l’edificazione della Garbatella continuò fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale a cui il quartiere non mancò di versare il suo contributo di sangue a causa dei bombardamenti anglo-americani. E qui Ennio trascorse moltissimi anni della sua vita, per strada, da ragazzino e poi con gli amici da adolescente. Dopo la guerra vi tornò e si sposò, impiegandosi nelle Poste. E anche allora l’esistenza non era facile, Ennio con grandi sacrifici provvide alla sua famiglia, l’amatissima moglie e i figlòio Glauco e Marco,  integrando il suo impegno di lavoro con quello sindacale e politico. Lavorando e facendo politica, Ennio riuscì anche a studiare laureandosi in Economia e Commercio. Attivissimo sindacalista nella Cisnal-Poste, il sindacato nazionale dei post telegrafonici, ne divenne segretario provinciale a cavallo degli anni di piombo quando all’ufficio “pacchi domicilio” nacque il gruppo che scherzosamente fu chiamato dei “Sette Samurai” di cui oltre a Ennio facevano parte Francesco Rossi e Mario Onesti, tutti iscritti e militanti del Msi nella sezione, neanche a dirlo, della Garbatella, in via Guendalina Borghese, non lontano da casa di Ennio che inizialmente abitava in via Guglielmo Massaia per poi trasferirsi in via Costantino, nei “palazzoni” che inizialmente erano stati realizzati per ospitare gli alberghi dell’Esposizione Universale del 1942.

Nella sezione di Via Guendalina Borghese oltre ai “Sette Samurai” erano iscritti altri postali tra cui Mario Faccenda che della Cisnal – poste diventò segretario nazionale (nella foto è il secondo da sinistra affianco a Ennio primo a sinistra). Una presenza così radicata del Msi alla Garbatella non deve sorprendere nonostante questa fosse diventato un quartiere “rosso”: già nel 1947 un gruppo di attivisti tra cui proprio Rosati, Enrico Ragno – un altro combattente della Rsi – e Dino Travaglini, riuscì a trovare uno scantinato sotto i palazzi ex Incis, in piazza Caterina Sforza 2, e ad aprire con determinazione e coraggio la prima sezione del Msi che, come ricordava Ennio, era un vero e proprio “covo”. Come molte altre sezioni del Msi di Roma, anche la Garbatella era animata dai famosi Volontari Nazionali di Alberto Rossi, il servizio di autodifesa del partito, dei quali anche Ennio faceva parte. Dopo qualche anno i missini aprirono un’altra sezione del vicino quartiere di Tor Marancia, zona altrettanto difficile, in piazza Lante, il cui segretario era all’epoca De Francesco. Attivissimo dopo la guerra era in quella parte di Roma il Partito Comunista Italiano, che negli ultimi mesi del conflitto aveva occupato quella che si chiamava “la Villetta”, già sede del Partito nazionale fascista, e che in seguito divenne sezione del Pci e di tutti i partiti che gli succedettero, fino al Pd. Ma nonostante questo il primo comizio in piazza alla Garbatella, davanti alla chiesa di San Francesco Saverio in piazza Sauli, fu quello di Giorgio Almirante, seguito da migliaia di persone nonostante il colore del quartiere. Grande amico di Ennio di quegli anni era l’indimenticato Silvano Seclì, “fegataccio” di attivista, col quale Ennio compì ogni sorta di azioni e di avventure attivistiche che oggi farebbero tremare i polsi a chiunque. Insieme a Silvano, Ennio pattugliava il quartiere sulla vecchia motocicletta Rumi del suo amico, facendo scritte contro Scelba in tutto il quartiere e poi dileguandosi tra i lotti grazie alla loro perfetta conoscenza della Garbatella. Verso la fine del decennio degli anni Cinquanta la sezione si trasferì nella sede attuale, in via Guendalina Borghese 8, non lontano dal palazzo della Regione Lazio. I primi segretari furono Gino Ragno, Sallusti, Francesco Rossi, scomparso pochi anni fa e, tra le responsabili femminili, l’indimenticabile Daniela Frisini. Sempre negli anni Cinquanta gli attivisti missini della Garbatella, stanchi della prevaricazione e delle prepotenze del Pci, assaltarono la “Villetta” comunista, in uno scontro che rimase epico nella memoria del quartiere a cui furono chiuse le vie d’accesso con dei camion e al quale prese parte attiva anche Enzo Erra. Un altro episodio storico importante lo abbiamo potuto chiarire grazie ad Ennio ed è quello che i giornali amano definire “i fatti della Garbatella” del 1970, violenti scontri di piazza nei quali però il Msi non ebbe nulla a che fare: furono le sinistre e in particolare il Pci che scatenarono una violenta guerriglia urbana per protestare contro il vertice Nato e in quell’occasione, furono i carabinieri col comandante D’Inzeo che assaltarono la “Villetta” da dove partiva la guerriglia. Scontri nel quartiere tra missini e comunisti ce ne furono certamente, ma tutto sommato, ci raccontò Ennio, le cose raggiunsero un certo equilibrio dopo che i missini fecero capire che volevano essere rispettati e che avevano anche loro il diritto di di fare politica nel quartiere. Negli anni di piombo la sezione subì ben sei attentati dinamitardi e una serie di aggressioni. Cambiarono le generazioni, gli attivisti anziani se ne andarono e ne giunsero di più giovani, vi furono diaspore, nuovi afflussi, polemiche fisiologiche, ma la sezione Garbatella, intitolata a Bruno Spampanato, giornalista e scrittore, fascista di sinistra, elaboratore del Manifesto di Verona, nonché primo direttore del Secolo d’Italia e deputato del Msi, rimase sempre aperta. Nella sezione vennero a parlare e a tenere conferenze persone del calibro di Mieville, Erra, Romualdi, Caradonna, Maceratini, oltre allo stesso Almirante e moltissimi altri. In questa sezione di sono formati tra gli altri politici come Giorgia Meloni e Andrea De Priamo, nonché Simone Di Stefano, oggi segretario nazionale di CasaPound. Anche il figlio di Ennio, Glauco, è stato apprezzato esponente politico e consigliere municipale della Garbatella così come il fratello Marco, attivo nel sindacato Cisnal, di cui fu anche segretario provinciale.

Negli anni Ottanta Ennio fu nominato da Almirante responsabile provinciale del Msi per la zona sud, i Castelli, una vera cintura rossa. Tra l’altro Rosati fu anche l’ultimo segretario missino della sezione di Montecompatri, dove erano iscritti anche Teodoro Buontempo e Rutilio Sermonti. Ennio Rosati fu anche Consigliere municipale di Alleanza nazionale dell’Eur dopo il suo trasferimento sulla Laurentina e anche in questa nuova avventura riscosse stima e rispetto. Anche negli ultimi anni Ennio ha continuato a fare politica sindacale, con l’Ugl Poste: ogni giorno andava nel suo ufficio presso il ministero organizzando iniziative sindacali e attività varie insieme con i suoi colleghi del sindacato. Aveva passato gli ottanta anni ma il suo spirito era sempre quello del quindicenne che si arruolò nella Repubblica Sociale per seguire il suo amato papà Romolo. Alla famiglia Rosati e a quanti lo amarono giungano le più sentite condoglianze del Secolo d’Italia e della Fondazione Alleanza Nazionale.

Le esequie di Ennio si terranno domani martedì alle 11 presso la parrocchia San Filippo Neri nella sua Garbatella. La camera ardente sarà allestita presso l’ospedale Sant’Eugenio all’Eur dalle 9 alle 10.30.

Si ringrazia per la preziosa collaborazione l’architetto Giuseppe Pezzotti, “vecchio” attivista della sezione Garbatella

(Nella foto: Romolo Rosati nella Rsi; il labaro della sezione Garbatella in occasione del ventennale del Msi nel 1966; comizio di Almirante alla Garbatella: il primo da sinistra è Ennio Rosati)

di: Antonio Pannullo @ 17:36


Ago 15 2019

Addio a Pino Conte, una vita silenziosa al servizio del Msi e grande signore d’altri tempi

Ci ha lasciati Pino Conte, per decenni apprezzato e insostituibile dipendente del Movimento Sociale Italiano e ascoltato consigliere dei vertici del partito a cominciare da Giorgio Almirante, che ricorreva a lui ogniqualvolta avesse bisogno di un consiglio per quanto riguardava le complesse leggi elettorali di questo Paese. Pino Conte infatti era uno dei massimi esperti italiani di questo complicato settore, stimato anche dal famoso prefetto Claudio Gelati che per anni diresse l’ufficio elettorale del Viminale. Pino per anni è stato una figura di riferimento nel Msi: ha occupato con grande competenza, pari solo alla sua umiltà e spirito di servizio, importanti incarichi nei vari uffici del partito, dalla diffusione alla propaganda all’ufficio elettorale: conosceva a menadito tutte le leggi in materia, tanto che quando nacque il Popolo delle Libertà, dall’unione tra Alleanza nazionale e Forza Italia, nel 2009, quanto Pino era già in pensione da parecchi anni, al momento di presentare le liste fu richiamato in servizio proprio lui per sbrogliare la matassa di cui nessuno capiva nulla. E lui, come al solito, se la cavò egregiamente facendo il suo dovere come sempre. Due lauree, di cui una in Economia Commercio, era il massimo esperto contabile del partito, ma non per questo aveva messo su arie: anzi, faceva a tutti la dichiarazione dei redditi, dava consigli, aiutava come poteva con la sua grande competenza. Pino, oggi lo si può dire, ha sempre fatto del bene a chi ne aveva davvero bisogno, ma non lo disse mai. Lavorava dieci o dodici ore al giorno, e spesso portava anche il lavoro a casa, senza mai pretendere nulla.

Nato nel maggio del 1937, era cresciuto alla scuola della sezione del Msi del Prenestino, una sezione che faceva delle battaglie sociali la sua ragione di vita, custode della memoria del fascismo e della Repubblica Sociale: era la sezione di Donato Lamorte (con cui Pino rimase amico tutta la vita), Ignazio Di Minica, Alberto Pompei, Enrico Cannone, Gianfranco Rosci, Angelino Rossi, Benito Condemi, Matteo Petrone, Carlo Aliverinini, Enzo Maria Dantini, Alberto Tani, Claudio Santellani, Daniele Rossi, e poi in tempi più recenti Massimo Magliaro, Lodovico Pace, Gigi D’Addio, Raoul Tebaldi, Walter Benvenuti, Volantino, Vittorio Sbardella e tutti quei fantastici attivisti della palestra di via Rivera e centinaia e centinaia di altri che passarono per questa storica sezione intitolata alla Medaglia d’Oro Francesco Maria Barracu. Tornando a Pino Conte, era tanto serio e professionale sul lavoro quanto scherzoso e disponibile e compagnone con gli amici, dai quali era indistintamente amato e benvoluto: ci piace ricordare tra gli altri i suoi colleghi con cui lavorò, da Franco Montemurro, scomparso di recente e che compare con lui nella foto che pubblichiamo insieme con Silvia Masetti, preziosa collaboratrice del Ctim di Mirko Tremaglia, a Luciano Dottori, a Nicoletta Grossi, a Roberta Carnello (che ci ha fornito la foto), a Mauro Desideri e ai tanti dipendenti del partito che si sono avvicendati negli anni. Ma Pino era sempre lì: impeccabilmente in giacca e cravatta, distinto, signorile, disponibile, sempre pronto a spiegare le cose a chi ne sapeva meno di lui, ossia a tutti. Non abbastanza apprezzato per quanto valeva, anche a causa della sua modestia e della sua riservatezza, ma soprattutto della sua continua disponibilità a risolvere i problemi di tutti e in primo luogo del partito in cui credeva e che era la sua ragione di vita: sì, perché Pino Conte era un Camerata nel senso più nobile che noi diamo a questo termine forse oggi desueto. Se ne è andato con discrezione, com’era nel suo stile, lasciando la moglie Pina e tre figlie, a cui vanno le condoglianze più profonde del Secolo d’Italia e della Fondazione Alleanza Nazionale, che lo rimpiangono sempre. Era di questo stampo che erano fatti gli uomini e le donne del Movimento Sociale.

Per chi volesse salutare un’ultima volta Pino Conte, le esequie si terranno domani 16 agosto alle ore 11,30 in via Augusto Lupi, nella chiesa Santa Maria Regina Mundi nel pressi di via Casilina a Roma.

di: Antonio Pannullo @ 19:56


Ago 13 2019

Mario Sironi, artista fascista: da volontario nella 15-18 all’adesione alla Repubblica Sociale

Mario Sironi, di cui oggi ricorre l’anniversario della morte, è uno degli artisti italiani più interessanti del secolo scorso. Pittore, scultore, architetto, illustratore, scenografo, grafico e anche scrittore, contribuì all’avanguardia culturale artistica nella prima metà del Novecento. Nato nel 1885 a Sassari, dove la famiglia si era trasferita per lavoro, si trasferì prestissimo a Roma, dove ebbe la sua formazione culturale. Proveniente da una famiglia di artisti, architetti e scienziati, Sironi compì studi tecnici, approfondendo però la musica, la letteratura, il disegno. Giovanissimo, si lega ai circoli artistici dello scultore Ettore Ximenes e del pittore Antonio Discovolo, frequentando i corsi della Scuola Libera del Nudo di via Ripetta a Roma. Frequenta anche Umberto Boccioni e Gino Severini e lo studio di Giacomo Balla, grazie al quale approda al Divisionismo. Dopo alcuni viaggi in Francia e in Germania, alla vigilia della guerra si avvicina al Futurismo partecipando alla Libera Esposizione Internazionale Futurista del 1914 a Roma. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si arruola volontario nel Corpo nazionale dei Volontari ciclisti e automobilisti, del quale già facevano parte Boccioni, Marinetti, Sant’Elia, Funi Russolo, continuando nel contempo a collaborare con riviste culturali. Rimane al fronte fino al 1918, quando inizia a collaborare con la rivista di trincea Il Montello insieme con Massimo Bontempelli.

Sironi su salvato dalla furia partigiana da Rodari

Dopo il congedo rientra a Roma e si rituffa nell’attività culturale e artistica,partecipando anche a esposizioni collettive e personali. La critica si era accorta intanto di lui: Margherita Sarfatti, oltre che Umberto Boccioni, lo lodarono per le sue opere, molte delle quali in questo periodo ispirate alla guerra. Nel 1919 sposa Matilde Fabbrini, dalla quale avrà due figlie. Sironi però continuava a vivere in ristrettezze economiche, per cui decise di trasferirsi a Milano; a questo periodo risalgono i suoi paesaggi urbani. Qui si avvicinò al fascismo, partecipando anche alle riunioni del Fascio milanese. Nel 1920 firma il Manifesto futurista e diventa illustratore per il Popolo d’Italia (da cui è tratta l’immagine che pubblichiamo). In questi anni Sironi collaborerà a molte rivista fasciste e sarà l’ispiratore dello stile fascista nell’arte. Nel 1922 aveva fondato insieme con altri pittori il movimento d’avanguardia Novecento Italiano, animato dalla Sarfatti. In tutti questi anni continua a dipingere e a esporre, con alterni successi. Esegue all’inizio degli anni Trenta una vetrata per il ministero delle Corporazioni e due grandi tele per il Palazzo delle Poste di Bergamo. In questo periodo si dedica sempre più alla grande decorazione, alla pittura murale, considerando ormai il quadro una forma di espressione insufficiente. Fino alla fine del fascismo Sironi continuò a realizzare importantissime opere pubbliche di ampio respiro e di grande impatto ideologico. Nel settembre 1943 Sironi aderì senza indugi alla Repubblica Sociale italiana, e il 25 aprile, a Milano, rischia anche di essere assassinato dalla furia partigiana che passava per le armi tutti i fascisti o presunti tali senza processo. Sironi fu infatti fermata da una banda partigiana, e solo l’intervento di Gianni Rodari, comunista e uomo di cultura, riesce a salvarsi. Sironi vede crollare il suo mondo, e inoltre la sua depressione è aggravata dal suicidio della figlia Rossana. Dopo la guerra continua però a lavorare, continuando a dipingere e a esporre, rifiutando però sempre di partecipare alla Biennale di Venezia. Nel 1955 esce la importante monografia su di lui di Agnoldomenico Pica e nonostante gli attacchi dei critici comunisti l’anno successivo viene nominato accademico di San Luca. Nel 1961 la sua salute è ormai deteriorata e nell’agosto del 1961 è ricoverato in una clinica di Milano dove il 13 muore per una broncopolmonite.

di: Antonio Pannullo @ 18:36


Ago 05 2019

La vita esemplare di “Otto il silenzioso”, che al comando degli U-boot terrorizzò gli inglesi

La storia di Otto Kretschmer, di cui oggi ricorre l’anniversario della morte, avvenuta nel 1998, è legata agli U-boot, una delle più formidabili armi dell’esercito tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale. Gli U-boot sono stati celebrati da film, documentari, libri e Otto Kretschmer è stato l’asso dei sommegibili, avendo al suo attivo l’affondamento di ben 44 navigli alleati. Le sue decorazioni parlano per lui: Croce di Cavaliere della Croce di ferro con fronde di quercia e spade (che ricevettero solo in 159), Croce di Cavaliere della Croce di ferro con fronde di quercia, Croce di Cavaliere della Croce di Ferro, Croce di Ferro di I classe, Croce di Ferro di II classe e il Distintivo di sommergibilista in oro con brillanti. Il suo eroismo e la sua correttezza indussero nel 1955 lo Stato maggiore della Germania Ovest a richiamarlo in servizio nella Bundesmarine, dove concluse la sua carriera come ammiraglio di flottiglia. Lo chiamavano Otto der Schweigsame (Otto il silenzioso), ma non perché fosse taciturno ma perché conduceva i suoi U-boot in un attacco definito “corsa silenziosa” durante il quale non faceva mai uso della radio.

Kretschmer, una vita al comando degli U-boot

Otto Kretschmer nacque nel 1912 ad Heidau, una delle più antiche città della Slesia, oggi in territorio polacco. All’età di 17 anni studiò per alcuni mesi all’University College in Inghilterra, dove imparò fluentemente a parlare inglese. Nel 1930 entrò nella Reichsmarine dove dopo l’addestramento raggiunse il grado di Cadetto del Mare. Dopo alcuni imbarchi su diverse navi dove perfezionò il suo addestramento, nel 1936 fu destinato agli U-boot, dove ebbe il grado di tenente al comando dell’U-boot 35, che fu coinvolto nella guerra civile spagnola. Nel 1937 fu mandato a comandare l’U-boot 23, dove lo trovò l’nizio della Seconda Guerra Mondiale. I suoi primi impegni con la Kriegsmarine lo videro nel Mare del Nord e sulla costa britannica, dove nel gennaio 1940 affondò la sua prima nave, una cisterna danese. Un mese dopo affondò una cacciatorpediniera inglese. Successivamente Kretschmer fu al comando dell’U-boat 99, dove iniziò ad attaccare di notte, in superficie, i navigli nemici, in genere usando soltanto un siluro. La citazione “una nave, un siluro” è attribuita a lui. La sua rivoluzione fu di iniziare ad attaccare le navi di notte all’interno di convogli. Nei mesi successivi affondò moltissime navi e riportò moltissimi successi. Gli inglesi lo temevano per la estrema temerarietà delle sue manovre. Ma Otto il silenzioso era correttissimo con gli equipaggi delle navi affondate: è noto che mandasse bottiglie di liquori e coperte sulle scialuppe di salvataggio e che una volta fece salire a bordo un marinaio inglese rimasto naufrago su una zattera.

La seconda vita di otto Kretschmer

Nel marzo 1941 Otto Kretschmer fece la sua ultima pattuglia sull’U-99: affondò dieci navi nemiche ma il suo sottomarino fu colpito dalle cariche di profondità di due cacciatorpediniere inglesi: risalito, sotto il fuoco nemico, Otto il silenzioso affondò il suo U-boot. Kretschmer chiese alla cacciatorpediniera inglese più vicina di salvare i suoi uomini e si assicurò che tutti salissero sulle reti messe sulla paratia della nave britannica., ma poi, vinto dal freddo e dalla stanchezza, cadde in mare. Fu solo grazie a un marinaio di Sua Maestà che scese dalle reti e estrasse Kretschmer dall’acqua gelida se lui sopravvisse. In seguito alla sua cattura Kretschmer trascosrse ben sette anni come Pow (Prisoner of war) in un campo di prigionia in Cumbria e poi in un campo in Canada. Solo nel 1947 gli fu permesso di tornare in Germania. Come detto, poiché non aveva commesso crimini di guerra, nel 1955 entrò nella Bundesmarine e poi divenne comandante del personale Nato a Kiel. Si congedò nel 1970 come ammiraglio di flottiglia. Negli anni seguenti otto Kretschmer fu tutto tranne che silenzioso: rilasciò interviste e consulenze sulla Seconda Guerra Mondiale e collaborò anche alla realizzazione del famoso gioco di simulazione Aces of the Deep. Ma il destino ebbe per lui una sorta di contrappasso: nel 1998, mentre era in gita in barca con la moglie per il suo anniversario di matrimonio, l’imbarcazione ebbe un incidente e lui morì nel Danubio. Il suo corpo fu cremato e le sue ceneri furono disperse nel suo amato mare.

di: Antonio Pannullo @ 20:07


Lug 28 2019

“DUX”: quando la storia riemerge scritta su una montagna. Travaso di bile del Pd

Una ennesima, sciocca, faziosa, polemica scatenata dal Pd, che evidentemente non ha altre priorità, come ad esempio la difesa dei lavoratori e il benessere degli italiani. Stavolta la pietra (è proprio il caso di dirlo) dello scandalo è una scritta “DUX” riemersa sulle rocce del monte sul paese di Villa Santa Maria, in provincia di Chieti. Si tratta solo di una delle migliaia di opere e delle realizzazioni del fascismo, che la sinistra vorrebbe cancellare con un colpo di spugna culturale e sociale: ricordate quando si voleva abbattere l’obelisco del Foro Italico? Il sindaco del comune abuzzese, Pino Finamore, ha già detto che non ricoprirà la scritta, in quanto testimonianza del passato storico del paese, poiché generazioni di cittadini sono cresciuti insieme a quella scritta, e poi, perché no? anche perché l’iscrizione potrebbe attirare turisti nel paese, considerato in una zona economicamente svantaggiata. Basti pensare a Predappio, comune arricchitosi grazie al turismo dovuto alla presenza della tomba di Benito Mussolini e a Villa Carpena, turismo che ogni anno porta valuta a tutto un indotto economico fatto di strutture ricettive, bar, ristoranti, negozi. E allora? Allora un deputato abruzzese del Pd ha rivolto una biliosa quanto ottusa interrogazione dalla quale traspare che la parte sana e migliore dell’Italia sia la sinistra, mentre quella retriva e cattiva sia la destra, figuriamoci poi il fascismo. Ovviamente non è così, e la storia si sta già occupando, sia pure tra mille difficoltà e bufale reiterate per quasi un secolo, di dimostrare chi furono i buoni e chi i cattivi, chi costruì e chi invece uccise innocenti e sparse terrore. Senza addentrarci in un dibattito storico-culturale, il Pd e tutta la sinistra si mettano l’animo in pace: non riusciranno mai a cancellare tutte le realizzazioni del ventennio fascista in Italia, dagli acquedotti ai monumenti, dalle abitazioni popolari alle riforme sociali, dalle bonifiche agli invasi artificiali, dalle ferrove alle città di nuova fondazione, fino alle scritte sugli edifici e sulle montagne, certo, che ormai rappresentano la memoria degli italiani e di un periodo storico che non sarà certo dimenticato per volere di una sinistra anti-italiana ormai allo sbando.

 

(Foto tratta da Il Primato nazionale)

di: Antonio Pannullo @ 17:57


Lug 23 2019

Quattro suggerimenti per l’apertura della fase tre di Fratelli d’Italia

Alla vigilia dell’Assemblea Nazionale del prossimo giovedi 25 luglio credo sia importantissimo analizzare con chiarezza quello che è accaduto dall’ormai lontano dicembre 2012, quando lanciammo il Movimento, ad oggi e le prospettive con gli obiettivi che dobbiamo darci. L’anno scorso scrissi un articolo di considerazioni che suscitò qualche polemica e che non fu preso bene da qualcuno: ma riflettere ad alta voce non è mai sbagliato, sia per chi pensa che per chi legge. Alle elezioni del febbraio 2013 Fratelli d’Italia raggiunse uno striminzito 2%, che fu comunque un punto di partenza. Nel 2014 mancammo il quorum delle Europee, ma il Partito raggiunse il 3,7%, consolidandosi poi ulteriormente alle regionali 2015 e alle amministrative di mezzo tempo. Nel 2018 finalmente alle politiche fu raggiunto un 4,3%, risultato forse un pò inferiore alle nostre aspettative, ma che ci permise di conquistare complessivamente 50 parlamentari fra Camera e Senato e diventare un Partito non marginale, di rilevanza nazionale. Alle Europee di quest’anno, con la conquista del 6,5 % e l’elezione di cinque parlamentari a Strasburgo, che diventeranno sei con la fuoriuscita dall’Europa della Gran Bretagna, abbiamo voce in capitolo sul palcoscenico internazionale. Si è conclusa così la fase due del Movimento con la messa in sicurezza della Destra politica e la possibilità di svolgere un ruolo significativo. La fase uno era stata quella di rialzare la nostra bandiera e di testimoniare la nostra sopravvivenza e il ritorno alla nostra politica originale, non subalterna ad altri schieramenti.

Forza politica di governo

Veniamo all’attualità: comincia ora la fase tre che è quella in cui dobbiamo essere protagonisti, non più Movimento politico di opposizione, ma forza politica di governo, con chiare le nostre strategie, le nostre alleanze, la nostra leadership.
La politica è sempre legata alle circostanze e il miglior progetto del mondo si infrange quando non ce ne sono le condizioni. Proprio in questi giorni stanno maturando le condizioni per il salto di qualità, parallelamente alla crisi del “contratto per il cambiamento” tra Lega e Movimento 5 Stelle, forze politiche pragmaticamente compatibili su alcuni punti ed in particolare sull’idea di rottamare il vecchio estrablishement, ma assolutamente incampatibili nelle visioni di fondo e nelle proposte di governo sull’idea del futuro, antagonisti quasi su tutto. Le alleanze “contro” durano il tempo dell’emarginazione del nemico, non di più. Quando gli avversari sono all’angolo, e lo sono Forza Italia e il PD, che non hanno nè idee nè progetti, nè contenuto per rialzare la testa, emergono prepotenti le contraddizioni tra i soci delle alleanze. Nessuno sa se domani, tra qualche settimana o tra qualche mese, ma il loro destino a breve è quello della rottura e del cambio di fronte. Appunto abbiamo di nuovo un ruolo tutto nostro, giochiamo all’attacco. Ma quali sono le linee guida per Fratelli d’Italia? Mi permetto di suggerirne alcune essenziali:

  1. Puntare al Partito a due cifre percentuali; quando si è in difficoltà è difficile crescere, quando si comincia a crescere tutti investono sul risultato prevedibile. Quindi godiamo di una grande attenzione di osservatori, di mass-media, di elettori, di esponenti della politica e della società civile di “area”. Più cresciamo nei sondaggi e più siamo attrattivi. Questo ci impone di aprire le porte a tutti, tranne ovviamente qualche personaggio indesiderabile, non porre paletti nè al centro nè in periferia poichè il contributo collettivo può fare il grande risultato. Ovviamente il fenomeno va governato dando sicurezza e garanzie alla nostra rete organizzativa consolidata, ma essendo molto aperti, disponibili ed accoglienti verso chiunque si avvicina, mostrandogli la possibilità di contare nelle decisioni e nelle prospettive di rappresentanza politica.

  2. Avere forte in mano il timone del Movimento, che proprio per essere inclusivo nei contenuti deve riuscire a rappresentare al suo interno tutte le anime ideologiche della Destra: quella nazionale, quella popolare, quella sociale, quella liberale, quella cattolica, quella laica, quella economica. Nessuna esclusa, ma con una forte capacità di sintesi politica, indispensabile per governarle e per governare poi il Paese e incidere in Europa. Ognuno deve riconoscersi nel Movimento e viverlo come proprio.

  3. Alleanze nella chiarezza con interlocutori che condividono fino in fondo la visione e il progetto comune. Il Polo delle Libertà, la Casa delle Libertà, il Popolo delle Libertà, pur avendo governato anche per lunghi periodi, talvolta anche con buoni risultati, hanno fallito il progetto di cambiare l’Italia proprio perchè all’interno erano inquinati da personale politico che al momento critico cambiava schieramento e poi andava a governare con gli altri, attraverso formule ambigue quali il “Governo del Presidente”, vedi Governo Dini, Governo Amato, Governo Monti, o addirittura direttamente con il PD come il Nuovo Centro Destra di Alfano e i gruppi parlamentari di Verdini con Letta, Renzi e Gentiloni, così come le ambiguità intermittenti di Berlusconi, condizionato dai problemi e dai ricatti, anche giudiziari e finanziari, sulle sue Aziende. Questi passaggi non dobbiamo mai dimenticarli se vogliamo cambiare l’Italia.

  4. Il Gruppo dirigente di Fratelli d’Italia è tema essenziale. La politica come noto dapprima è una proposta ideale ed un progetto teorico, ma poi cammina sulle gambe di uomini e donne. Se quelle gambe e quelle menti non sono forti, determinate e soprattutto numerose, poi si rimane scoperti e subentrano altri. Questo non deve succedere. Fondamentale è la qualità e il reclutamento del personale politico. Senza quello non si va da nessuna parte. Mi sentirei di affermare che proprio quando le cose vanno abbastanza bene, bisogna porre la massima attenzione sulla qualità dei singoli, anche con una analisi non superficiale dei loro comportamenti presenti e passati, della loro capacità di tenuta, della loro capacità emotiva e psicologica, della loro affidabilità nel tempo, della loro capacità di reggere frustrazioni e differimento delle soluzioni e dei risultati. Questo è fondamentale perchè proprio sul deficit del personale politico viaggia la sconfitta. Occorrono persone giovani, entusiaste e di sfondamento, persone più mature che diano sicurezza e continuità, persone più anziane fornite di grandissima esperienza, saggezza ed equilibrio. Così si riescono a reggere e tollerare anche le criticità e le defaillance degli altri. La classe dirigente deve essere anche al vertice numerosa, qualificata, immediatamente riconoscibile e percepibile nei lavori parlamentari, sui mass-media, sul territorio; non può essere ristretta ad un piccolo nucleo che lavora dietro le quinte. Giorgia Meloni che ormai ha una leadership forte e consolidata, deve disporre di almeno 20/30 persone che possano fare i Ministri, i Sottosegretari, i Presidenti di Regione, i Consiglieri di Amministrazione di grandi Enti Pubblici e che abbiano grande competenza nei vari settori della vita pubblica ed economica, riconosciuta in modo indiscusso presso alleati e avversari che possono essere nominati ovunque ci siano spazi disponibili, senza polemiche.

Così, e solo così, potremmo andare al Governo e avere la capacità di cambiare finalmente l’Italia per davvero, condizionando fortemente anche le politiche europee. Perchè noi Europei lo siamo per nascita, e direi anche fondatori non solo della Comunità Europea, ma dell’idea più grande dell’Europa già un paio di mila anni fa. Se non sbaglio l’Europa nasce con l’Impero Romano, dalla Grecia antica e dal Sacro Romano Impero.

di: Francesco Storace @ 11:33


Lug 22 2019

Benessere e azionariato dei lavoratori, avanza un nuovo “modello”?

Come tutti i fenomeni di portata “epocale”, anche il tema della partecipazione dei lavoratori all’interno delle aziende ha tempi e modalità di lunga durata. Vecchie mentalità sono al tramonto. La conflittualità ideologica non sembra più essere un orizzonte realistico, sia per i lavoratori che per il mondo imprenditoriale. Meglio mediare, costruire percorsi condivisi, fidelizzare i dipendenti, riconoscendone il valore professionale. L’idea del lavoro come merce, teorizzata da Marx e concretizzatasi con il capitalismo, non regge più il confronto con la realtà economica, sociale e tecnologica del Terzo Millennio. Partendo da questa presa d’atto si può comprendere, dati alla mano, l’emergere di una nuova sensibilità collettiva, allo stato nascente, che vede nel benessere dei lavoratori e nell’azionariato dei dipendenti le nuove frontiere di una più alta e matura consapevolezza sociale.

A parlare sono due recenti ricerche, che segnano il mondo del lavoro: una sulla correlazione positiva tra benessere dei dipendenti, produttività, e performance aziendale, l’altra sull’espansione dell’azionariato dei dipendenti in Europa.

Sul primo versante ci sono i risultati di una meta-analisi di studi indipendenti, raccolti da Gallup, sul benessere e la produttività di quasi 2 milioni di impiegati e le performance di più di 80.000 unità aziendali, provenienti da 230 organizzazioni indipendenti che comprendono 49 settori in 73 paesi pubblicata da Krekel, Ward e De Neve.

Lo studio condotto da Christian Krekel, George Ward e Jan-Emmanuel De Neve prova a far luce sulla relazione tra benessere performance aziendali.

La soddisfazione dell’impiegato ha una correlazione positiva con la fedeltà del cliente e una correlazione negativa con il ricambio del personale. È importante sottolineare che la maggiore fedeltà del cliente e la produttività dei dipendenti, come anche il minor ricambio del personale, si riflettono nella maggiore redditività delle unità aziendali, come evidenziato da una moderata correlazione positiva tra la soddisfazione dell’impiegato e la redditività.

Nel complesso i dati indicano l’importanza universale del benessere dei dipendenti in tutti i settori.

Tradotti in estrema sintesi questi dati vogliono dire che le buone pratiche d’impresa e la fidelizzazione dei dipendenti rappresentano le nuove frontiere (anche contrattuali) sulla via dell’integrazione sociale e della trasformazione dei rapporti tra datore di lavoro e lavoratori in un patto associativo permanente. E qui entra in gioco il tema dell’azionariato dei dipendenti.

L’anno trascorso, il 2018, è stato un nuovo anno record per l’azionariato dei dipendenti in Europa, con quasi 400 miliardi (pari al 3,11%) di capitalizzazione posseduta dai dipendenti nelle loro società.

Sempre più società europee disegnano piani di azionariato riservati ai dipendenti: l’87,3% delle grandi aziende europee hanno offerto piani di azionariato, il 52,3% di tipo generalizzato, diretto a tutti i dipendenti. Il 33,4% ha lanciato o reiterato piani di azionariato, un dato che ogni anno aumenta.

Anche il numero dei dipendenti azionisti è di nuovo in crescita, e raggiunge 7,5 milioni nelle grandi società. Se aggiungiamo le piccole e medie imprese, circa un milione, il dato totale arriva a 8,5 milioni. In coincidenza con la crisi finanziaria ed economica alcuni Stati europei come la Gran Bretagna hanno scelto di potenziare l’incentivazione fiscale, con la promozione dell’azionariato dei dipendenti e del risparmio di lungo periodo come investimento per il futuro.

Per quanto significativi questi dati non esauriscono il più ampio e complesso tema della partecipazione sociale e di una cogestione che non si limiti all’espansione dell’azionariato dei lavoratori. Siamo cioè in premessa di un discorso che va approfondito e reso più diffuso.

Al fondo – questo però è il dato più rilevante – è che grazie a questi processi d’integrazione va crescendo una volontà partecipativa in grado di permeare l’intero assetto sociale: nuova consapevolezza (dei lavoratori e dei datori di lavoro), risultati immediati (in grado di realizzare le cosiddette “buone pratiche” all’interno delle aziende), integrazione (grazie all’azionariato). La prospettiva è la realizzazione di autentiche e più alte forme di partecipazione. Ce n’est qu’un début . Comunque un buon inizio. Da non sottovalutare. E da seguire con attenzione.

 

 

 

di: Aldo Di Lello @ 16:01


Lug 14 2019

Reggio Calabria ricorda la rivolta popolare del 1970 e i suoi protagonisti

Oggi si è rinnovato l’appuntamento con una delle pagine più dolorose e, nel contempo, più esaltanti della storia di Reggio Calabria: i Moti del 1970. Giuseppe Agliano, Presidente del “Comitato 14 luglio”, che raggruppa Associazioni, Movimenti e Partiti della Destra reggina che da sempre si adoperano affinché questa ricorrenza non cada nell’oblio e per tenere sempre vivo e attuale lo spirito di quei fatti, dà appuntamento all’anno prossimo, quando cadranno i 50 anni della rivolta, rivolta che causò ben 5 vittime, per le quali oggi le associazioni hanno deposto una corona di fiori.

Il governo mandò i carri armati a Reggio Calabria

Sulla rivolta di Reggio Calabria del 1970 sono stati scritti libri, saggi, fatti documentari e servizi giornalistici, ma forse nessuno ha inquadrato veramente quelli che furono i motivi della più lunga rivolta sociale italiana, e quella più determinata,che costrinse il governo a mandare l’esercito nella città calabrese. Convenzionalmente si stabilisce nel 14 luglio l’inizio della rivolta, perché effettivamente è il giorno in cui la città insorse dopo il comizio del missino Natino Aloi e del sindaco Dc Battaglia, ma avvisaglie c’erano state anche nelle settimane precedenti. Se dovessimo indicare la data che dette il via alla sacrosanta rivolta popolare, diremmo certamente il 17 gennaio di quell’anno, quando la Dc in una riunione a Roma, si espresse per Catanzaro capoluogo, soluzione vista con favore anche da Psi e Pci. Dopo le prime contestazioni, anche da parte dei Dc calabresi, ci fu una parziale marcia indietro, e la Dc disse che nessuna decisione definitiva era stata presa, preferendo rinviare il problema a dopo le elezioni amministrative e regionali del 7 giugno, dove il Msi arrivò solo quarto, dopo Dc, Pci e Psi. E il primo luglio si annunciò la convocazione del consiglio regionale a Catanzaro per il 13 luglio successivo. Il sindaco e il Msi annunciarono la mobilitazione davanti a migliaia di persone in piazza del Duomo, seguiti anche da esponenti repubblicani e liberali. Ma a volte il diavolo ci mette la coda e il 6 luglio il presidente del Consiglio Mariano Rumor si dimise lasciando Reggio senza alcun interlocutore. A Villa San Giovanni Amintore Fanfani ammise di non avere soluzioni e venne sonoramente fischiato dalla gente. E quella sera, il 12 luglio, comparvero in città i primi blocchi stradali. Il 13 luglio il consiglio si svolse a Catanzaro, ma senza la Dc e il Msi, che anzi convocarono un controconsiglio a Reggio. I commercianti proclamarono lo sciopero e il popolo si mobilitò.

Il 14 luglio Reggio Calabria insorge

Il 14 la città insorge: cortei si svolgono nelle strade principali e il Msi con Aloi e Ciccio Franco e il sindaco Battaglia animano la protesta. I blocchi stradali si moltiplicano, interi quartieri si rivoltano come gli ormai famosi Sbarre e Santa Caterina. Le forze dell’ordine tentano di smontare le barricate ma esse si moltiplicano sin sull’autostrada. Il regime fa affluire a Reggio uomini e mezzi, ma da tutta Italia giungono in sostegno del popolo calabrese gli attivisti del Msi e di Avanguardia nazionale, che prendono la guida della rivolta popolare. La città piomba nel caos: in serata sul lungomare e via della Marina iniziano gli scontri, la polizia effettua alcuni fermi ma è costretta a liberare i manifestanti dopo un’ulterior eprotesta, i binari e le stazioni vengono occupate, il popolo non si disperde, e la città è completamente isolata. Il 15 luglio è peggio: alla popolazione si aggiungono operai, studenti, ferrovieri, ci sono altri scontri con feriti, le szioni di Psi e Pci vengono incendiate, il fumo avvolge la città. Gli attivisti dell’estrema destra sono instacabili: corrono da una parte all’altra della città, controllano che le barricate non vengano rimosse, prestano soccorso ai feriti, rispondono con sassaiole alle cariche e ai candolotti lacromogeni delle forze dell’ordine. Vengono lanciate le prime molotov. E in questo giorno c’è la prima vittima, Bruno Labate, ferroviere 46enne trovato morto in via Logoteta: non si saprà mai chi l’ha ucciso. Il 16 luglio viene dichiarato il lutto cittadino e il ministro dell’Interno Restivo si affretta a dichiarare che la scelta di Catanzaro è solo provvisoria, ma ciò non basta  aplacare gli animi, perché non fu una rivolta di campanile, come disse la sinistra, ma una autentica rivolta popolare di gente che accumulava frustrazione e rancore contro una classe politica depredatrice e infingarda.

La rivolta si estese rapidamente in tutta la provincia

Nei giorni successivi gli scontri proseguirono sempre più aspri, i manifestanti raggiunsero Villa San Giovanni dove bloccarono i traghetti per la Sicilia, cinquemila donne sfilarono in corteo, il tritolo fece esplodere una filiale Fiat e un ispettorato di Ps, insorsero anche Melito Porto Salvo e Gambarie d’Aspromonte, decine di arresti e altrettanti feriti. Il 30 luglio migliaia di persone accorsero al comizio del Comitato d’azione di Aloi e Franco a Reggio. Quest’ultimo ricevette assicurazione dal sondaco Battaglia che la protesta sarebbe andata avanti. I primi di agosto venne negata l’autorizzazione per un comizio di Junio Valerio Borghese ma concessa a Pietro Ingrao, che però fu contestato e cacciato dalla folla. La protesta proseguì in sordina ma si riaccese a settembre, quando si registrò un’altra vittima, Angelo Campanella, autista di autobus. Arrestati due leader del Comitato d’azione, Ciccio Franco e  Alfredo Perna. La reazione del popolo fu terribile: armerie prese d’assalto, la questura assaltata, un agente morì di infarto, lo stesso arcivescovo Ferro scesee tra la folla per calmare gli animi. L’esercito è ora costretto a controllare le linee ferroviarie.

Solo il Msi difese le ragioni di Reggio in parlamento

Ora la battaglia si sposta in parlamento, mentre molti paesi del Reggino di rivoltano a a Reggio compare una bandiera azzurra con scritto “Repubblica di Sbarre”. La rivolta durerà molti mesi e  con il solo appoggio politico del Msi. Gli uomini migliori che Reggio potesse esprimere al tempo, per citarne alcuni: Ciccio Franco, Nino Tripodi, Raffaele Valensise, Fortunato Aloi, Renato Meduri, Giuseppe Reale, Vico Ligato e lo stesso Battaglia, con tenacia e duri confronti, riuscirono a strappare alcune importanti istituzioni, tra le quali la Corte d’Appello, l’Università, la sede del Consiglio regionale, l’Università per Stranieri. A dicembre Ciccio Franco e altri arrestati ottengono la libertà provvisoria, ma gli scontri e i disordini proseguono ovunque, cortei indetti dal Comitato d’azione di decine di migliaia sfilano per la città. Solo il 12 febbraio, piegato dalla rivolta popolare, il nuovo presidente del consiglio Emilio Colombo annuncia che il governo ha deciso salomonicamente che Catanzaro sarà capoluogo e sede della giunta e Reggio sede del consiglio regionale. Inoltre, dice Colombo, sarà creato un quinto centro siderurgico dell’Iri che assicurerà migliaia di posti di lavoro. Ma oggi abbiamo visto come è finita. La protesta però prosegue per tuytta l’estate, il sindaco Battaglia di dimette per protesta contro il governo. Il 20 settembre il segretario di Avanguardia nazionale Adriano Tilgher tiene una conferenza stampa a Reggio. Il 17 ottobre, poiché a Reggio erano proibite le manifestazioni pubbliche, il segretario del Msi Giorgio Almirante tiene un affollatissimo comizio a Villa San Giovanni, schierandosi dalla parte dei reggini. La rivolta di Reggio può dirsi conclusa, grazie anche ai carri armati per le strade che mai si erano visti dopo il 1945, vergogna nazionale di uno Stato debole e nello stesso tempo arrogante.

di: Antonio Pannullo @ 18:44


Lug 14 2019

Luz Long, l’atleta amico di Owens assassinato dagli americani dopo che si era arreso

Terribile è la storia di Luz Long, il saltatore in lungo tedesco, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Berlino, famoso per essere diventato amico del campione americano Jesse Owens durante le Olimpiadi stesse, che recentemente è stato ricordato dai media come esempio di sincero spirito sportivo. Si chiamava Carl Ludwig Herman Long, detto Luz, ed era nato a Lipsia. Alto, biondo, occhi azzurri, era il prototipo perfetto di ariano che piaceva ad Adolf Hitler, ma non ce la fece a battere Jesse Owens, che anzi, vinse proprio grazie al consiglio che gli dette Long di prendere la rincorsa partendo 30 centimetri prima dell’inizio della pedana di rincorsa.

E al salto vittorioso, Long fu il primo ad andarsi a congratulare sinceramente con lui. Lo stesso Owens negli anni successivi ricordò più volte quell’episodio e la stretta amicizia che legò i due atleti per molti anni. Fino alla morte di Long, per mano americana, il 14 luglio del 1943, in Sicilia. Prima di rievocare quel crimine, vorremmo ricordare che non è affatto vero che Hitler rifiutò di stringere la mano a Owens perché di colore: Hitler dopo la vittoria gli fece un saluto con la mano dal palco, perché è noto che non amava stringere la mano a nessuno. La strinse solo agli atleti tedeschi che avevano vinto le medaglie d’oro. Al contrario, fu il presidente della “democratica” America Franklin Delano Roosevelt che non incontrò Jesse Owen al suo ritorno trionfare negli States, dove il razzismo era ancora imperante e dove durò sino agli anni Sessanta e oltre.  Ma questa è un’altra storia.

Tornando a Long, fu richiamato alle armi nell’aviazione tedesca, la Luftwaffe, che lo mandò di stanza a Niscemi, in Sicilia. Il 9 luglio 1943 gli “alleati” lanciarono l’Operazione Husky, ossia lo sbarco in Sicilia, preceduto dal famoso discorso del comandante della VII Armata generale George Patton che, in un discorso motivazionale agli ufficiali del 45° Fanteria, disse testualmente, secondo le testimonianze dei processi successivi: “Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!”. L’invasione della Sicilia fu caratterizzata da atrocità e da durissimi combattimenti, ma anche da crimini di guerra americano, come il massacro di Biscari, nel quale appunto perse la vita Luz Long, che allora aveva trent’anni. Dopo la strage di Vittoria, del 10 luglio, dove persero la vita 12 civili italiani, tra cui il figlio 17enne del podestà di Acate, che stava correndo in soccorso del padre, anche lui poi assassinato, il 13 e 14 luglio fu attaccato l’aeroporto di Biscari-Santo Pietro, difeso da forze italiane e tedesche. Dopo durissimi combattimenti, che durarono tutti il giorno, nel pomeriggio gli assediati si arresero. E qui vi furono due stragi: la prima ordinata dal capitano John Compton, alle cui forze si arresero gli occupanti di una casamatta che uscirono con le mani alzate e sventolando fazzoletti bianchi. Long era tra questi.  Il capitano Compton fece allineare i prigionieri e fece requisire scarpe, vestiti e oggetti di valore, e poi li fece assassinare a freddo. Solo in due si salvarono, perché dopo i primi colpi riuscirono a fuggire nelle campagne. Il mattino dopo il cappellano militare americano King trovò i 34 cadaveri allineati sulla strada e intorno centinaia di bossoli americani.

Furono parecchie le stragi Usa  di civili in Sicilia

Intanto un altro gruppo di 39 prigionieri erano stati affidato al sergente Horace West e a sette soldati Usa. Il sergente li fece fermare sopra una scarpata e poi li uccise personalmente a raffiche di mitra. Qui si salvò un solo prigioniero, l’aviere Giuseppe Giannola, che in seguito raccontò la terribile vicenda ai comandi Usa, rimanendo inascoltato. Ma per l’insistenza del cappellano King, che era tenente colonnello, la procura militare statunitense avviò gli accertamenti sulle stragi, rinviando alla fine a giudizio il capitano Compton e il sergente West. I due graduati si difesero sostenendo di aver eseguito solamente le istruzioni di Patton, generale con tre stesse e grande prestigio: Compton fu assolto ma poi morì a Montecassino, mentre West dopo una prima condanna fu liberato e rimandato al fronte. Poi di lui si persero le tracce: sembra che sopravvisse alla guerra morendo poi in tarda età. Dopo il 14 luglio le stragi per mano Usa continuarono, e furono principalmente stragi di civili: a Comiso, a Piano Stella, a Canicattì, a Butera e in altri paesi in provincia di Palermo, ma mai nessun procedimento giudiziario di aperto. Tutti questi crimini dopo la guerra in Italia furono ignorati per motivi di opportunità politica, ma è bene ricordarli ogniqualvolta si parla in Italia dei crimini dei tedeschi  e dei combattenti della Repubblica Sociale.

Oggi Luz Long riposa al cimitero di Motta Sant’Anastasia, nel Catanese, e solo nel 2012 è stata apposta una lapide che ricorda il sacrificio dei soldati italiani e dei tedeschi in quei luoghi.

di: Antonio Pannullo @ 17:42


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