La missione Unifil, attiva dal 1978, non ha mai conosciuto un livello di tensione così alto dal conflitto del 2006. I caschi blu, con oltre 10.000 soldati provenienti da 50 Paesi, pattugliano quotidianamente la Blue Line, confine di 120km tracciato dalle Nazioni Unite tra Libano e Israele, cercando di evitare una nuova escalation tra le parti. Tuttavia, gli attacchi israeliani contro le postazioni Onu sotto comando italiano hanno destabilizzato ulteriormente una situazione già precaria.
Il ruolo dell’Italia: l’impegno non vacilla
L’Italia con i suoi 1256 militari, 374 mezzi terrestri e sei mezzi aerei, guida una delle missioni più importanti e riconosciute a livello internazionale. L’efficienza italiana è stata già dimostrata in Iraq, oggi in Niger, e domani magari a Gaza, dato che gli USA hanno già esplorato con i Carabinieri la possibilità di fare patrolling nella Striscia. Come ha ricordato il ministro della Difesa Guido Crosetto, in visita in Kosovo: «Pretendo il rispetto che pretende una nazione amica impegnata in una missione internazionale di pace».
Attacchi mirati contro i caschi blu: il ruolo cruciale dell’Italia
L’attacco israeliano, definito «intollerabile» dalle diverse componenti del governo italiano, non è stato solo un incidente: «Non si tratta di un errore», ha spiegato Crosetto, sottolineando come le postazioni colpite siano ben note a Israele. In gioco non c’è solo la sicurezza dei nostri soldati, ma la stabilità di una regione martoriata da decenni di conflitti.
Una missione umanitaria oltre la sorveglianza
L’Unifil, non è una semplice operazione militare, bensì un ponte diplomatico e umanitario. Il contingente italiano, infatti, non si limita a sorvegliare, ma piuttosto si impegna giornalmente ad attività di mediazione tra le parti, di supporto umanitario alla popolazione civile, facilitando interventi cruciali nelle aree colpite e aiutando a mantenere aperti i corridoi umanitari. «L’Italia non prende ordini da nessuno soprattutto se è in un luogo in nome delle Nazioni Unite con il compito di mantenere la pace. Noi siamo lì e ci rimaniamo con la fierezza di un mandato che abbiamo ricevuto dal Palazzo di Vetro», ha ribadito Crosetto.
La comunità internazionale condanna gli attacchi: Israele sotto accusa
Una presa di posizione condivisa anche dal ministro degli Affari Esteri indonesiano, Retno Marsudi: «Attaccare il personale e le basi delle Nazioni Unite è una grave violazione del diritto internazionale umanitario», ha detto ai microfoni di Al Jazeera, dopo che due suoi connazionali sono rimasti feriti nell’assalto. Poche ore prima anche Simon Harris, con truppe irlandesi sulla Linea Blu, aveva sottolineato alla Bbc che Israele ha «il diritto di difendersi, il diritto di vivere in pace e sicurezza» e nessuno lo mette in discussione, ciò nonostante «il diritto internazionale deve essere rispettato, e anche la proporzionalità deve essere considerata».
Dopo quattro attacchi in 48 ore, per il portavoce delle Forze ad Interim, Andrea Tenenti, «la situazione è chiara: se nei mesi passati ci sono stati scontri, in questo caso sembrano attacchi voluti e deliberati contro l’Unifil da parte dell’Idf, l’esercito israeliano», aggiungendo che, «continueremo a rimanere qui – perché – siamo qui con un mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e non è pensabile che un membro dell’Onu possa prevalere sul Consiglio stesso». Tenenti ha concluso affermando che colpire una missione di pace rappresenta «violazione chiara del diritto internazionale e umanitario».
«Rivedere le regole d’ingaggio» dei peacekeepers
Ad intervenire sulla vicenda anche un’altra voce italiana, Stefania Craxi, presidente della Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato, che ha definito un eventuale ritiro dell’Unifil un possibile «un disastro». Secondo Craxi, l’Onu ha bisogno di rivedere le «regole d’ingaggio» della missione, ormai obsolete, e dotare i caschi blu di maggiori poteri difensivi. D’altra parte, Nino Minardo, presidente della Commissione Difesa della Camera, ha insistito sull’urgenza di aggiornare le regole d’ingaggio che risalgono a ben 18 anni fa, dato che la situazione in Libano è profondamente cambiata.
La pace ad ogni costo
Nonostante tutto, Crosetto ha rassicurato che la scelta finale spetterà al Consiglio delle UN e ai 40 Paesi contributori, sottolineando però che l’Italia continuerà a spingere per soluzioni di pace. «Il Libano non è l’Afghanistan», ha rammentato, mettendo in luce la complessità del contesto politico e sociale libanese, un Paese che ospita 2 milioni di profughi su un popolazione di 6 e che, ora rischia di esplodere sotto la pressione di questa crisi. Se da un lato il teatro operativo deve essere adattato al nuovo scenario, dall’altro l’Italia ha dimostrato di essere un attore chiave nella regione, con una reputazione solida guadagnata sul campo. Ritirarsi significherebbe lasciare un vuoto pericoloso.