Via della Seta, la partita con la Cina è aperta. Ma senza una politica forte sarà un disastro

2 Dic 2019 19:18 - di Enea Franza
via della seta

Questo le assegnerebbe un ruolo simile a quello del Giappone degli anni ’70. Il modello prevede che un Paese più sviluppato diffonda la propria conoscenza ai Paesi meno sviluppati per diventarne, successivamente, mercato per l’export. Il modello si può descrivere in modo sintetico in quattro fasi. La prima: inizio importazioni dei follower dai paesi industrializzati. Così inizia la comunicazione e il “contatto” con le altre culture. Ad esempio quando il Giappone importava cotone, tabacchi, orologi. La seconda riguarda il forte aumento delle importazioni di macchinari e materie prime, ed assume sempre rilevanza l’industria locale dei Paesi follower. Con la terza iniziano le esportazioni (prodotti grezzi) e continuano le importazioni (di prodotti raffinati e costosi). Infine, la quarta fase: il ciclo finisce quando iniziano le esportazioni dai follower ai leader.

A chi conviene se “i deboli diventano forti”

Questa teoria è sia dinamica che determinista e, secondo Akamatsu, l’economista giapponese degli anni Trenta che l’ha formulata, porta allo sviluppo ed al benessere mondiale. Non si tratta di una teoria di dominio. È un modello di tipo win to win. Nel dettaglio, per quanto concerne le caratteristiche dei Paesi, i followers hanno a disposizione bassi salari, bassi costi di materie prime, mercato locale. Tramite lo scambio si crea un contesto culturale di apprendimento dagli altri Paesi, che consente la crescita. Ora i leader sono sempre nella posizione più scomoda in quanto saranno sempre rincorsi e imitati dai followers, e potranno cercare di preservare temporalmente la propria posizione attraverso l’aggiornamento continuo dei propri prodotti e/o introducendone di nuovi, in modo da soddisfare le richieste dei mercati. Il vantaggio dei leaders dura per poco tempo, in quanto i followers utilizzano le loro tecnologie, la tecnica di produzione sulla base di industrie esistenti e ben collaudate per raggiungerli. In tale modello, la posizione che assumono i Paesi non è mai definitiva. C’è sempre la possibilità per i deboli di diventare forti.

Quando lo Stato autoritario interviene sul mercato

Diverso, e adesso più vicino alle posizione di Trump, è il cosiddetto approccio dello Stato “sviluppista”, in cui si osserva che il rapporto con il mercato cinese è fuorviato dalla massiva presenza dello Stato nei mercati. Per il modello si osserva la presenza di uno Stato autoritario e forte che sa opporsi alle logiche internazionali per proteggere la propria economia; la presenza di una burocrazia efficiente ed elitaria; la stretta collaborazione tra Stato e mercato; l’impianto di una economia d’esportazione delle materie prime – Export oriented Industrialization (Eoi).

La Cina ci guadagna due volte

Sul cosa fare, va osservato che, in teoria, la strategia win to win è ottimale se ci si conserva parità di forza (cosa che i rapporti con la Cina sembrerebbero smentire). In effetti, la Cina descrive il progetto “Via della Seta” come un progetto pacifico di rilancio della globalizzazione e dei liberi commerci. Un progetto basato sulla logica del “win-win” e dei mutui benefici con i Paesi partners. E per i Paesi a corto di capitali, le istituzioni finanziarie cinesi intervengo con prestiti per la costruzione delle infrastrutture, che altrimenti non si potrebbero sovvenzionare. Per altro verso, la “Via della Seta” è un progetto funzionale a dare sfogo alla sovraccapacità produttiva interna della Cina. Vari studi hanno mostrato che oltre il 90% dei lavori viene affidato ad aziende cinesi, per lo più colossi di Stato. Infine, i prestiti eventualmente concessi si devono ripagare con gli interessi e con sanzioni salate in caso di inadempimento.

La teoria dei giochi applicata alla Via della Seta

Ciò premesso, una negoziazione ottimale in ambito win to win parte dal presupposto di tenere in considerazione sia i propri bisogni che quelli dell’interlocutore, cercando vantaggi per entrambe le parti. Si attiva con una metodologia ben consolidata che prevede di comprendere gli interessi e gli obiettivi di entrambe le parti; individuare a cosa non è disposta a rinunciare ognuna delle due parti e sviluppare assieme più opzioni; avere e dimostrare un reale interesse nel trovare una soluzione soddisfacente per entrambi. Tale strategia in un contesto reale è vincente. Tuttavia, solo se è possibile lasciarsi la strada aperta per un comportamento di tipo “Tit for tat”. Si tratta di una strategia, introdotta da Anatol Rapoport nel 1980, molto efficace nella teoria dei giochi per risolvere il problema del dilemma del prigioniero ripetuto. Vediamo di che si tratta: un agente utilizzando questa strategia sarà inizialmente un collaboratore, in seguito risponderà con la stessa strategia delle mosse degli avversari. Se l’avversario è stato a sua volta cooperativo, l’agente sarà cooperativo, in caso contrario no.

Non scelte di vertice, ma condivisione

L’applicazione della strategia dipende da quattro condizioni. In partenza, e se non c’è stata provocazione, l’agente è sempre cooperativo; se provocato l’agente si vendica; l’agente perdona subito dopo essersi vendicato, tornando a essere cooperativo; l’agente ha una consistente opportunità di competere con l’opponente più di una volta. In quest’ultima condizione è importante che la competizione continui abbastanza a lungo da consentire un numero di ritorsioni/perdono sufficiente a generare un effetto a lungo termine più rilevante rispetto alla perdita di cooperazione iniziale. Dunque, il suggerimento, stante le premesse, è di approcciarsi all’eventuale firma del MoU con l’attenzione che merita un progetto che è certamente epocale, ma che visto le ambiguità insite nel progetto stesso si presta ad infiniti possibili interpretazioni e sbocchi imprevedibili. In tale contesto è evidente che è necessario adottare una strategia condivisa che sia supportata ai più alti vertici e pienamente compresa dai cittadini. Di tutta evidenza la teoria economica ci suggerisce la strada e sarebbe sciocco non discuterne.

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