Sei Nazioni. E il rugby champagne diventa “spumante”. Tutti in piedi: ecco l’Italrugby
Tanto tuonò che piovve. E dopo qualche tentennamento iniziale, una vittoria bruciata contro un’Inghilterra dominata per quasi una partita che sullo scadere del tempo ribalta il risultato; dopo un’amara sconfitta contro un’Irlanda che, avendo a sua volta perso contro l’Inghilterra, chiude al primo posto il Sei nazioni mancando per poco il Grande Slam (il premio che spetta alla squadra che completa il torneo senza sconfitte); dopo un beffardo pareggio che, per una punizione sbagliata all’ottantunesimo minuto, salva la Francia da una sconfitta; dopo una splendida corale vittoria contro la Scozia… dopo tutto questo ben di Dio che parrebbe raccontare la solita altalena tra incertezze, quasi vittorie, sconfitte e occasioni mancate per poco, oggi l’Italrugby consolida un risultato storico: con due vittorie e un pareggio gli azzurri stabiliscono un nuovo record nella storia della partecipazione italiana al prestigioso torneo che ci aveva visti al massimo vincitori di soli due incontri dei cinque che ogni anno vengono disputati.
Il posizionamento in classifica in fondo, con un quinto posto, potrebbe non sembrare eccellente. Invece quello appena disputato dall’Italia è senza dubbio il miglior Torneo delle Sei Nazioni mai disputato dal 2000, anno dell’ammissione degli azzurri alla prestigiosa competizione. Il migliore non per quel piccolo passo avanti nel record stabilito con un pareggio in più rispetto alle due vittorie, ma per intensità e qualità di un gioco costruito e curato in cui una granitica difesa si sposa con un strategia offensiva graffiante e determinata, con un ottimo uso del gioco al piede e con un gioco alla mano frizzante e veloce, con una solida presenza nei punti di contatto, con un squadra compatta nell’assumersi la responsabilità collettiva di organizzare la strategia di gioco e di resistere alle incursioni avversarie con placcaggi determinati ed efficaci.
Ma, ancor di più, è il miglior Sei nazioni disputato sotto il profilo del carattere, il Sei nazioni in cui una delle formazioni azzurre più giovani (con una età media di 24/25 anni) mette a tacere le più forte nazionali europee – che sono anche tra le squadre più forti al mondo – conquistando sul campo quel rispetto che forse, per troppo tempo, l’Italia si è sempre vista negare da avversari (e anche da arbitri) troppo convinti che gli azzurri fossero ancora dei novellini poco adatti alla palla ovale. Nonostante nel corso degli anni tantissimi siano stati i giocatori di alto livello che hanno vestito la maglia azzurra, dagli eroi di Grenoble che nel 1997 sotto la guida di George Coste sconfissero la Francia e conquistarono l’accesso dell’Italia al Sei nazioni, ai tanti giocatori di razza come Diego Dominguez, Sergio Parisse, Mauro Bergamasco e tanti altri, nonostante tantissimi senatori di indiscussi qualità e prestigio, questo gruppo di poco più che ventenni ha dimostrato al rugby che conta non soltanto che gli azzurri hanno la forma fisica e la capacità tecnica di stare in campo per 80 minuti, ma che hanno anche la determinazione e la lucidità per gestire emozioni, pressione e stanchezza al punto da avere sempre la capacità di aggredire ogni centimetro e ogni minuto con una enorme fame di vittoria.
C’era però, in un lento percorso di crescita, un dubbio, una domanda che nel corso degli anni attanagliava tifosi ed osservatori: come fosse possibile che una Nazione che avesse una eccellente nazionale under 20, che negli ultimi anni ha sempre chiuso il Sei Nazioni U20 con due o tre vittorie a torneo, sconfiggendo ad anni alterni tutte le contendenti europee, non riuscisse ad esprimere una nazionale seniores che andasse oltre ad 8 anni filati di ultimo posto con annesso cucchiaio di legno?
La chiave di volta sta, probabilmente, proprio nella crescita qualitativa di quel vivaio che – seppur di numero limitato a causa della sproporzione del numero degli atleti praticanti tra l’Italia e le altre nazionali – con graduali innesti ha imposto, oggi, un totale rinnovamento della rosa dei giocatori, ed un salto qualitativo derivante dalla migliore formazione tecnica di base e dalle brillanti esperienze internazionali che gli azzurrini hanno affrontato. Se da un lato, fino a qualche anno fa, la Federazione Italiana Rugby era specializzata nel reclutamento di giocatori stranieri di origine italiana da poter naturalizzare per tappare buchi in formazione, oggi si raccolgono i frutti di anni di formazione di giocatori sportivamente nati e cresciuti nei campionati giovanili italiane e nelle accademie federali. E mentre la qualità del vivaio cresce, il problema si sposta sui campionati seniores che oggi, tranne che per le franchigie di Treviso e Parma che giocano nella Celtic League, sono di qualità molto più bassa rispetto agli altri campionati europei, per cui il dilemma è dove far giocare i più talentuosi giovani atleti al fine di garantirgli una continuità nella crescita.
Per quanto sia un parallelismo che può scatenare pruriti e fastidi della maggioranza calciofila, con le tante difficoltà incontrate nel colmare il gap con le squadre di nazioni che hanno inventato o scoperto il rugby più di un secolo fa o nel conquistarsi il rispetto di snob d’oltralpe e presuntuosi d’oltremanica, la nazionale Italiana di rugby con una squadra giovane, fresca, determinata e di formazione italiana ha conquistato il nono posto nel ranking mondiale con possibilità di ulteriore salita dopo la vittoria contro il Galles; la stessa posizione occupata dalla nazionale azzurra di calcio che però, a fronte di un campionato di altissimo livello, con un numero esponenzialmente più alto di partecipanti rispetto al rugby e con investimenti economici assolutamente imparagonabili non riesce a esprimere una formazione di livello. A causa dell’alto numero di giocatori stranieri che militano nel campionato italiano, freniamo la crescita di giocatori italiani e prepariamo ed alleniamo giocatori che militeranno nelle nazionali avversarie, sempre che, nonostante aver vinto 4 volte il titolo, non si riesca a rimanere fuori dal campionato mondiale di calcio.
Forse, tra i tanti meriti di questa nazionale di rugby, andrebbe annoverato anche quello di poter rappresentare un esempio per la gestione della pratica sportiva e dell’accesso al professionismo, in cui l’idea della programmazione della formazione tecnica e atletica di base scalza la facile logica del mercato. Oggi, quei piccoli leoni cresciuti a pane e rugby nei polverosi campi di provincia sono cresciuti, e hanno dimostrato così tanto carattere, grinta, competenza e determinazione da poterci regalare un gioco divertente e appagante, sostituendo al vecchio rugby champagne di stampo transalpino un sano italico e orgoglioso rugby spumante!