Il destino di Antonio Riva, l’aviatore fascista giustiziato a Pechino nel 1951

18 Ago 2017 15:52 - di Antonio Pannullo

Antonio Riva è un nome oggi sconosciuto. Ma è stato un grande italiano, particolarmente per la sorte terribile che gli toccò: fu giustiziato nell’agosto del 1951 con un colpo alla nuca dalle Guardie Rosse cinesi nei pressi di piazza Tienanmen, dopo un processo-farsa in cui il regime lo accusò falsamente di spionaggio e cospirazione. Lui, che era un asso dell’aviazione italiana, Medaglia d’Argento al valor militare nonché fascista convinto. In realtà Antonio Riva era un sincero amico della Cina, tanto che aveva deciso di trasferirvisi definitivamente e passarvi il resto della sua vita. Ma andiamo con ordine. Riva in Cina ci nacque, a Shanghai, dove la sua famiglia si era trasferita in quanto il padre Achille si occupava di commercio della seta. Tuttavia il padre lo fece tornare in Italia, a Firenze, dove Antonio frequentò il liceo. Dopo la scuola, Antonio conseguì il brevetto di pilota a Pisa, e si arruolò subito volontario pilota nella Grande Guerra. Partecipò, col grado di capitano, a molte operazioni importanti, venendo ferito due volte, meritandosi appunto la citata medaglia e l’Ordine militare di Savoia. Fu uno dei 41 assi italiani della Grande Guerra. Dopo la guerra si iscrisse tra i primi al Partito nazionale fascista – di cui fondò anche la sezione cinese – e divenne amico di Gabriele D’Annunzio e tornò in Cina come corrispondente della Stampa. In Cina, sua patria d’adozione, Riva avviò anche un’attività per la vendita di armamenti e aeroplani. Galeazzo Ciano, che nel 1930 era era console italiano, accreditò Riva come istruttore pilota per i cinesi nazionalisti, compito che Riva svolse dal 1934 al 1949. Sposato una prima volta con la fiorentina Emi Corradi, se ne separò senza aver avuto figli, per risposarsi nel 1932 con una statunitense, Catherine Lum, da cui ebbe quattro figli.

Riva accusato falsamente di voler uccidere Mao

Ma la sorte di Antonio Riva stava per cambiare: nel gennaio 1949 Mao Tse Tung arrivò a Pechino, e Riva decise di non espatriare, convinto che il nuovo governo sarebbe stato migliore del precedente. Ma sbagliava. Dopo la presa del potere, nell’ottobre dello stesso anno, da parte dei comunisti, Riva cominciò a essere malvisto per il suo passato di fascista e per i suoi legami coi nazionalisti cinesi. Gli fu anche suggerito di andarsene, ma lui rimase. Così, nel 1950 fu arrestato, insieme con altri stranieri, accusato di un complotto per uccidere Mao. Complotto del tutto inesistente, come in seguito fu appurato e come resero noto anche esponenti politici cinesi molto anni più tardi. Probabilmente il caso fu montato per distogliere l’opinione pubblica dalla guerra di Corea, che in quel momento per Pechino non andava molto bene. Così, Riva e altri, tra cui il suo vicino giapponese Yamaguchi, vennero messi ai domiciliari nella loro residenza in vicolo della Dolce Pioggia, sorvegliati a vista da uomini armati. Era il periodo della lotta del maoismo contro la chiesa: gli altari vennero trasformati in tribunali dove si condannavano i cattolici, costretti a confessare dalle torture e dalle minacce alle famiglie. In un anno vennero cacciati dalla Cina di Mao oltre 1700 missionari cattolici. Come detto, dopo un processo farsa, Riva e Yamagochi furono condannati a morte sulla base di prove false. I due furono condannati a morte e condotti al Tempio del Cielo, tra due ali di folla che li insultava. La condanna fu eseguita nel pomeriggio del 17 agosto 1951 ai piedi del Ponte del Cielo, tramite fucilazione, ma Riva, secondo testimonianze venne finito da un colpo alla nuca. Secondo altre testimonianze raccolte dai figli, mentre la moglie stava seppellendo Riva al cimitero, arrivarono le guardie comuniste che irrorarono il cadavere di ddt e impedirono di scriverne il nome sulla lapide. Il cimitero in seguito fu devastato durante la Rivoluzione culturale e trasformato in parco per picnic. Non sarà mai più possibile trovasre le spoglie di Antonio Riva. Ma la vicenda ha una coda, terribile: Catherine, la vedova, fu espulsa insieme con i figli dalla Cina e rispedita in Italia su una nave, in terza classe. Giunta aVenezia, non ebbe alcun aiuto da parte delle autorità italiane (il presidente del Consiglio era De Gasperi), anzi, dovette persino rimborsare al governo italiano i soldi del biglietto. Chaterine visse lavorando presso il consolato americano di Genova dove s’era stabilita e dove morì nel 1983. Questa terribile vicenda era pressoché ignota in Italia, sino al 2008, quando quando uscì il libro di Barbara Alighiero, L’uomo che doveva uccidere Mao. L’autrice, sinologa, è stata per vent’anni corrispondente dell’Ansa da Pechino. Barbara Alighiero ha raccolto sulla piazza Tiananmen, dalla voce di Zhao Ming, ex viceministro della Pubblica sicurezza, queste parole: “È passato mezzo secolo, non abbiamo mai detto a nessuno, straniero o cinese, cosa è successo davvero. Il caso di quel Riva ce lo siamo per lo più inventato noi. Io lo so bene, ero vicedirettore della Prima sezione investigativa. Se non ci fosse stato Riva, ne avremmo trovato un altro e avremmo avuto la nostra bella congiura americana. Era quello che ci serviva allora”.

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