Anna, 20 anni, morta dopo aver mangiato il tiramisù. Due persone a processo a Milano per omicidio colposo
Madre e figlio, Giovanna Anoia e Giuseppe Loiero, titolari del laboratorio da cui uscì il tiramisù “contaminato” costato la vita – la sera del 26 gennaio 2022 in un ristorante di corso Garibaldi a Milano – alla 20enne Anna Bellisario, con una forte allergia ai latticini, sono stati sentiti dal gip di Milano Fiammetta Modica.
“Siamo dispiaciuti” le parole rivolte al giudice davanti alla quale hanno sostenuto di aver interrotto, di propria iniziativa, il giorno successo all’accaduto la produzione dei cibi vegani. Nell’ordinanza con cui viene disposta l’interdizione, per un anno, dall’attività imprenditoriale, per il gip è “pacifico che proprio dalla ‘difettosità’ del processo produttivo sia discesa al commistione degli ingredienti che comportava al messa in vendita del prodotto che, una volta ingerito, scatenava al reazione allergica e li conseguente decesso” della giovane.
Per il giudice “non vi sono elementi per ritenere sussistente un decorso causale alternativo autonomo né per ricondurre l’evento morte ad altra concausa idonea ad elidere il nesso di causalità” per il quale il pm Luca Gaglio procede per omicidio colposo.
Il tiramisù venduto come vegano conteneva tracce di latte
Il “Tiramisun”, dolce venduto come vegano, in realtà conteneva tracce di latte e di uova. La ventenne lo aveva mangiato il 26 gennaio del 2023 in un fast food, a Milano. L’evento che “ha causato il decesso di Anna Bellisario”, ha scritto il gip nell’ordinanza, è “da ricondurre, secondo la prospettazione accusatoria, all’erroneo utilizzo di mascarpone nella produzione della crema destinata al tiramisù vegano”.
Nel laboratorio sotto accusa, si legge ancora, “preparavano i prodotti vegani e non vegani nello stesso ambiente, in contemporanea e sullo stesso tavolo”, si confondeva nella produzione di dolci l’uso di “preparati di origine animale”, come il mascarpone, e di “ingredienti di origine vegetale” e, poi, chi lavorava nel laboratorio non aveva una “formazione adeguata”, tanto che un dipendente, ad esempio, aveva seguito solo un “corso di carattere generale” di “quattro ore sulla normativa vigente in tema di igiene degli alimenti”.