“Ecco perché l’Occidente odia se stesso”: intervista con Spartaco Pupo, autore di “Oicofobia”
Il termine è poco noto: oicofobia. Eppure il fenomeno è diffuso, in atto da tempo e sotto gli occhi di tutti: “L’oicofobia è un disturbo in ambito psicologico acclarato della scienza psichiatrica in un paio di secoli di studio, è il terrore smisurato, perché non commisurato all’effettivo pericolo, di tutto ciò che rappresenta la casa. In ambito sociale e politico è il pregiudizio verso tutto ciò che attiene al noi, al retaggio culturale, all’identità nazionale, al patrimonio culturale, alla narrazione collettiva rispetto all’essere nazione”, spiega Spartaco Pupo, professore di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, che al tema ha dedicato il saggio Oicofobia. Il ripudio della nazione, pubblicato con Eclettica Edizioni. Il volume è frutto di studi che vanno avanti da anni, da ben prima che alcune manifestazioni di questo “disturbo” approdassero nel dibattito pubblico attraverso fenomeni come la cancel culture e il wokismo. Pupo, investigandone radici e conseguenze, offre anche un rimedio: la riscoperta “materiale e spirituale” del valore della nazione, attraverso alcune precise azioni.
Professore, perché in Occidente c’è questa tendenza al rifiuto di sé?
Perché in alcuni ceti intellettuali, che spesso coincidono con il mainstream, è radicata una forma di marxismo strisciante, non dichiarata, che poi è la vera matrice della cancel culture e del wokismo. C’è un problema di tipo ideologico: è l’universalismo, quel millenarismo escatologico di chi è rimasto schiavo dell’utopia universalistica per cui sono legittime solo le azioni e i pensieri universali, mentre tutto ciò che richiama alla differenza tra individui è una violazione dei diritti umani. Questi ceti sono quelli che prescrivono gli indirizzi di pensiero, le mode, le tendenze, gli orientamenti ideologici, le piste di ricerca, le campagne pubblicitarie, la propaganda politica. Costituiscono una élite abbastanza accreditata anche in politica, dove occupano le stanze dei bottoni. Pensiamo all’Union of equality del 2021, con cui l’Ue dava indicazioni su un linguaggio epurato da qualsiasi riferimento al noi.
È per questo che l’oicofobia è pressoché assente dal dibattito pubblico?
Da quello e anche dagli studi accademici, nei quali esiste una certa trascuratezza analitica e storiografica sull’argomento. Invece, vediamo che sono molto indagati altri tipi di fobie: la xenofobia, l’omofobia, l’islamofobia…
Che grossomodo sono argomenti privilegiati degli stessi ambienti che appaiono affetti di oicofobia…
Perché l’attenzione di chi è affetto da oicofobia si concentra sempre sull’altro da sé. A tutto ciò che è straniero, esotico, non occidentale e, nel nostro caso, non italiano è assegnata una superiorità, mentre ciò che è nostro è motivo di vergogna, rappresentato come retrogrado. E chi vorrebbe valorizzarlo, chi si sente italiano, chi nutre sentimenti di appartenenza, chi tiene all’identità nazionale e non ritiene di doversene disfare a vantaggio di non si sa cosa è additato come provinciale, sciovinista, fascista, razzista.
Lei ricorda che l’oicofobia in psichiatria è un disturbo che affligge soprattutto gli adolescenti. Se lo trasliamo in ambito politico vuol dire che c’è un’immaturità nelle nostre democrazie?
La psicologia riconosce il nesso tra adolescenza e oicofobia come abbastanza tipico, infatti lo considera più che altro un disturbo che poi scompare quando si matura. Diventa un problema quando non scompare. In ambito politico, possiamo parlare di immaturità democratica nel senso che chi vorrebbe dettare l’agenda è rimasto indietro, è nostalgico di costruzioni ideologiche e politiche universalistiche. Ma storicamente quando si è trascesa la nazione per costruire entità politiche e sovrane sovranazionali si sono avute o feroci dittature come l’Urss o burocrazie come l’Ue. L’idea che disfarsi del sentimento patriottico aiuti la democrazia è falsa, mentre è vero il contrario e la storia lo dimostra.
Nonostante tutto, però, lei si dice ottimista rispetto alla possibilità di invertire questa tendenza.
Sì, a patto che si agisca su più fronti. Innanzitutto, quello politico. Da 50 anni a questa parte si contano sulle dita di una mano i politici che, a parte ovviamente la destra, hanno investito su ciò che è anti-oicofobo o non oicofobo: Craxi, che ha ripreso il mito garibaldino; Ciampi, con il recupero del patriottismo repubblicano. Oggi bisogna dare atto a Giorgia Meloni che la nazione come misura anti-oicofoba torna al centro del linguaggio politico. Lei quotidianamente parla di Nazione: non di Paese o Stato, ma di Nazione, che non è un carcere e non è nazionalismo, ma negoziazione interclassista di interessi comuni.
Su quale altro fronte si può agire?
Su quello della valorizzazione di tutto ciò che è identità nazionale, spirituale e materiale. Penso, per esempio, alla salvaguardia del territorio, del paesaggio; alla ripresa del discorso formativo che investa, in controtendenza rispetto ad alcune mode, su un’istruzione omogenea su tutto il territorio nazionale, dalla Calabria a Bolzano; a tutto ciò che ha a che fare con la difesa dei diritti e dei doveri degli italiani. E poi c’è l’aspetto più spirituale dell’identità nazionale, di attaccamento a una comunità strutturata politicamente. Un sentimento che si declina o traduce in leggi e decisioni collettive. Perché ci si deve sentire cittadini sradicati di un mondo astratto? L’etimologia di nazione rimanda a “natio”, alla nascita, alle origini, al ritorno a casa. La patria è anche matria, non si può mettere tra parentesi nell’agire morale, ma anche e soprattutto in quello politico. Per questo sono ottimista: quella degli oicofobi è una battaglia politica persa, i popoli continuano a rivedersi nelle narrazioni identitarie nazionali, nelle bandiere.