Mariupol, il racconto della giornalista: «Spari contro la nostra auto, colpita al viso una bimba»

11 Mag 2022 14:50 - di Mia Fenice
Mariupol

«Viaggiavamo in una colonna di auto che evacuavano civili da Mariupol, quando arrivati a un posto di blocco russo, un militare ha aperto il fuoco contro di noi, colpendo al volto una bambina di 11 anni seduta nei sedili posteriori». Lo racconta all’Adnkronos Katya Erskaya, giornalista e producer video di 31 anni, originaria di Odessa, ma residente a Mariupol, scelta perché «prima della guerra era una città molto accogliente e vivibile».

Mariupol, la testimonianza della giornalista

Il 24 febbraio Katya, che da inviata ha raccontato il conflitto in Donbass, era pronta al peggio: «Sapevo benissimo che sarebbe iniziata la guerra e che sarebbe arrivata presto a Mariupol, dove già si sentivano spari sulla costa orientale. Io avevo preparato la valigia, tenevo i documenti a portata di mano, avevo scritto il testamento e dato indicazioni ai miei amici. Ero pronta insomma, mi aspettavo che la guerra sarebbe iniziata, ma non mi aspettavo questo livello di atrocità e distruzione».

Dopo pochi giorni in cui in città «non succedeva nulla di particolare, si sentivano solo spari da lontano, man mano hanno iniziato a esserci combattimenti in strada e a scarseggiare luce, gas, acqua e soprattutto la connessione, quindi nessuno poteva chiedere aiuto in caso di bisogno». E così Katya ha deciso di offrirsi come volontaria al centro municipale. «Portavamo alle persone cibo e beni di prima necessità», racconta. Da volontaria era stata anche al teatro d’arte drammatica, trasformato in rifugio per civili e bombardato il 16 marzo, lo stesso giorno in cui la giornalista-volontaria è riuscita ad evacuare dalla città, sfruttando il secondo corridoio verde aperto.

Mariupol, la giornalista e la famiglia in fuga

La sua auto stava uscendo da Mariupol, quando tra le tante persone che scappavano a piedi, ha notato un gruppo di quattro donne: nonna, mamma e due bambine. «Quello che mi ha colpita è che avevano con loro due gatti nei trasportini, una piccola tartaruga in un contenitore e due criceti. Una famiglia che invece di portarsi dietro le valigie con i vestiti, scappa con gli animali, è composta per forza da persone buone e coscienziose. Così abbiamo deciso di accoglierle e dare loro un passaggio», spiega Erskaya.

Nonna, mamma e bimbe si sono sedute nei sedili posteriori dell’auto. I trasportini con i gatti, invece, sono andati davanti, sulle ginocchia di Katya. Secondo lei è stato proprio questo a salvarle la vita durante l’attacco al posto di blocco. «Quando il militare ha cominciato a sparare, io automaticamente mi sono abbassata, come se sulle gambe avessi un bambino da proteggere. E la pallottola mi è passata appena sopra la testa».

Gli spari sull’auto, colpita una bambina

La piccola di 11 anni, invece, è stata colpita in piena faccia. «La ferita era molto grave e nella cittadina in cui eravamo, Tokmak, non c’era un ospedale specializzato per prestare le cure necessarie a una bambina con una pallottola in testa», racconta Katya, che dopo la sparatoria è andata a discutere con i militari e li ha convinti «a lasciarci portare la bimba in ospedale a Zaporizhzhia. Credo che avessero capito che attaccarci fosse stato un loro errore». Sbaglio che secondo la giornalista si può spiegare «solo con la paura: a tutti i posti di blocco c’erano sempre dei ceceni, che non parlavano neanche russo, e dei soldati delle popolazioni asiatiche della Federazione russa, quelle che vivono nelle condizioni più disagiate. Secondo me erano consapevoli di trovarsi su un territorio che non era loro e di stare facendo la cosa sbagliata. Temevano di continuo che sabotatori e militari ucraini potessero attaccarli. Peccato che noi eravamo una colonna di civili disarmati».

La bambina portata in ospedale è stata salvata

Portata in ospedale a Zaporizhzhia, la bimba è stata salvata. «Spero che si riprenderà del tutto e che di questo incidente ricorderà soltanto la cicatrice che avrà sul viso», dice Katya, che ora si trova a Kiev e nonostante l’esperienza da reporter di guerra l’abbia preparata a «gestire lo stress, fornire primo soccorso medico ed elaborare quello che accade», ancora non accetta «che cose simili possano succedere nel XXI secolo».

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