Torna in libreria “Le origini dello spirito capitalistico in Italia”, opera prima del Fanfani “fascista”
Quante volte abbiamo sentito ripetere che il capitalismo è un prodotto del protestantesimo luterano? Tante, davvero. Fino a convincerci che se economie di nazioni cattoliche come Italia, Spagna e Portogallo non ne sono state mai contagiate fino in fondo, è solo perché protette dallo scudo della Controriforma. Ma è davvero così o forse ci troviamo di fronte a un formidabile ribaltamento del rapporto tra causa ed effetto, nel senso che è stato il capitalismo ad appoggiarsi alla Riforma più di quanto questa lo abbia covato? È la tesi che fa da filo conduttore a “Le origini dello spirito capitalistico in Italia”, libro scritto da Amintore Fanfani nel 1933. E che torna in libreria per i tipi di Ar (22,80 €) in copia anastatica curata da Sabino Morano, che ne è anche il postfatore.
Fanfani lo scrisse a 25 anni
All’epoca della prima pubblicazione, il futuro capo democristiano ha soli 25 anni. Ma ha già abbastanza dimestichezza con la materia da confutare le tesi espresse da due studiosi del calibro di Werner Sombart e Max Weber. Il primo è l’autore de “Il Borghese” e de “Il capitalismo moderno”. Il secondo ha scritto “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. Entrambi arrivano a correlare la genesi del capitalismo – inteso come atteggiamento dello spirito umano prima ancora che come sistema economico – al protestantesimo sull’onda della critica che essi muovono al materialismo storico di Karl Marx e alla distinzione che egli compie tra struttura e sovrastruttura. E se la prima è data dall’economia e dai rapporti produttivi ad essa connessi, la seconda ne costituisce il riflesso epifenomenico in termini di diritto, filosofia, religione, ideologia.
Tra Marx, Sombart e Weber
Ma per Sombart e Weber non è così. Seppur con non lievi differenze riscontrabili nelle loro opere, sostengono invece che nel caso di specie è stata la sovrastruttura, cioè la religione, a generare la struttura, cioè il capitalismo. Qui, però, li attende Fanfani. A sostegno della propria tesi il giovane aretino oppone l’Italia del XIII e del XIV secolo, pullulante di attività economiche, di corporazioni di lavoratori, e già alle prese – laboratorio in quel tempo in Europa – con le pratiche del credito in funzione anti-usura. L’Italia di quei tempi, insomma, ha tutte le carte in regola perché sia la prima o tra le prime a maturare una moderna visione capitalistica. Almeno quella che Sombart concepiva come «dominata dal principio del razionalismo e del profitto economico».
L’economia teocentrica del Medioevo
Se non accade – argomenta Fanfani – è perché quei secoli medioevali sono fortemente condizionati dalla morale teocentrica. A Dio è sottoposta anche l’economia, e quindi la pratica dell’accumulazione del denaro, temperata dal principio tomistico del «giusto mezzo» e dal fine “sociale” del suo impiego. Il “capitalista” medioevale ha contezza del necessario, ma rifiuta il superfluo. Le cose cambiano con l’Umanesimo, quando la concezione antropocentrica soppianta quella teocentrica. Ora tutto è funzionale all’interesse dell’uomo, compreso il lavoro e la ricchezza che ne deriva. Il “giusto mezzo” diventa un concetto polveroso mentre la ricerca dell’utile sostituisce il fine caritatevole sotteso al “sociale”.
Per Fanfani il capitalismo non è “figlio” di Lutero
Un profondo cambio di schema e di mentalità rispetto alla morale cristiana che per Fanfani è decisivo nel provare che la Riforma di Lutero ha accelerato ma non “generato” la spinta verso il capitalismo. Era infatti stato l’Umanesimo ad arrecare una profonda ferita ai valori cristiani. Se l’Italia non è della partita è per ragioni diverse da quelle religiose. Innanzitutto l’affermarsi, già a partire dal Quattrocento, di una visione che faceva discendere la potenza dalla ricchezza e che galleggiava su un edonismo diffuso. Ma a frenare la corsa verso il capitalismo dell’economia italiana concorsero anche la concorrenza mercantile del Nord-Europa e la chiusura dei traffici nel Sud-Est seguita alla conquista di Costantinopoli da parte dei turchi nel 1453. Due eventi che convinsero i ricchi ad investire in proprietà fondiarie. Cominciò così quella cultura della rendita, tuttora diffusa nella nostra economia, e che Fanfani efficacemente bolla come la «spagnolizzazione dell’Italia».
Fascismo e Terza via
Un libro antico, dunque, questo curato da Morano, ma tutt’altro che vecchio. E senz’altro utilissimo a chi volesse approfondire la peculiarità dell’economia italiana e del suo tormentato rapporto con il capitalismo al di fuori degli stereotipi in circolazione. Merita menzione, infine, la circostanza che vede la pubblicazione dell’opera di Fanfani in pieno fascismo, in un periodo in cui il regime cercava una via d’uscita originale alla crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 1929. In tal senso, il libro del non ancora professore Fanfani (lo diventerà nel 1936) è un prezioso contributo al dibattito che all’epoca vedeva confrontarsi il corporativismo cattolico e quello fascista. Ad ulteriore sconfessione di chi, in nome dell’odio politico, pretenderebbe di sbianchettare oltre vent’anni di storia italiana riducendola a olio di ricino e manganello.