Strage di Bologna, il giallo: l’album fotografico delle vittime esiste, ma è sparito

31 Ott 2019 17:17 - di Massimiliano Mazzanti
Strage di Bologna

Tutto ineccepibile, ma solo apparentemente. Perché la Corte d’Assise, infatti, solo adesso impone di circoscrivere il processo al “ruolo” di Cavallini? Quando, su richiesta delle parti civili, ha ascoltato per mesi grottesche ricostruzioni, quando non vere proprie calunnie in materia dei delitti di Piersanti Mattarella e Mino Pecorelli? Oppure sulla fantomatica “rete Anello” e su tante altre “divagazioni sul tema” ? Che certo nulla avevano e hanno a che vedere con Cavallini e col processo 2 agosto? Inoltre, se ci fosse una 86esima vittima, la quale probabilmente sarebbe l’attentatrice, il discorso sul “ruolo” di Cavallini cadrebbe di per se stesso.

Siamo al ridicolo

Sul secondo punto, poi, si sfiora il ridicolo. Nessuno aveva alcun dubbio che i resti della mano trovati insieme allo “scalpo” avrebbero potuto essere di una delle vittime note del 2 agosto, finendo nella bara per errore. Ma c’è una differenza abissale: i resti della mano potrebbero appartenere a chiunque; lo “scalpo”, verificato che non è della Fresu, a nessun’altra delle 84 vittime note. Per di più, il mistero dei resti non riconosciuti s’infittisce sempre più: il difensore di Cavallini, Alessandro Pellegrini, in aula ha portato le prove. Prove che testimoniano l’esistenza di un “album” fotografico delle vittime e dei resti umani portati all’obitorio il 2 agosto 1980: si tratta di 116 foto che furono pagate 348 mila lire, ma che qualcuno ha ben pensato di far sparire, almeno a tutt’oggi.

Strage di Bologna, il giallo delle foto

A ciò si potrebbe aggiungere – è notizia inedita – che anche i “resti umani” che erano stati portati e registrati all’obitorio, in realtà, non risultano mai essere stati sepolti alla Certosa di Bologna. Nell’apposito registro non c’è traccia. Dove sono finiti? Fatti sparire anche quelli? Se la Corte d’Assise e Leoni sono convinti che la confusione avrebbe impedito a qualcuno di inquinare la scena del delitto, perché mai hanno speso tempo – e pubblico denaro – per procedere all’identificazione eventuale? Con l’analisi di decine di migliaia di volti, di tutti coloro che furono ripresi alla stazione di Bologna negli istanti e nelle ore successive alla strage?

Solo nell’ipotesi che fossero stati lì per aiutare Cavallini e compagni, gli spioni di chissà quale servizio avrebbero potuto inquinare la scena del delitto? Oppure, li si è cercati nella convinzione che fossero lì, se ci fossero stati, solo per complimentarsi l’un l’altro dell’operazione compiuta? Sul fatto che lo “scalpo” non sarebbe un reperto affidabile perché non se ne conoscerebbe lo stato di conservazione negli anni, beh, che siano proprio le parti civili a dirlo è enorme: sono le stesse che fecero addirittura un annuncio pubblico, affinché chiunque portasse alla Corte eventuali oggetti conservati e di qualsiasi natura che il 2 agosto fossero passati per la stazione. E più di ogni altra considerazione, vale la parola di Elena Pilli, perito del Ris dei Carabinieri di Roma. La quale ha tagliato breve, ricordando come <se ci ponessimo sempre questo problema non ci sarebbero i “cold case”>.

Insomma, se il processo è una sorta di match pugilistico, la sensazione che si è avuta nell’ultima udienza è identica a quella degli spettatori di certo tipo d’incontri: quelli in cui, al termine di ogni ripresa, si ha la sensazione che i giudici tendano ad enfatizzare le “carezze” di uno dei contendenti (le parti civili e l’accusa, in questo caso). E a sottovalutare sistematicamente gli “uppercut” con cui l’altro manda regolarmente al tappeto l’avversario. E non è una bella sensazione, proprio per niente.

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