Turchia, i curdi denunciano una nuova raffica di arresti alla vigilia delle elezioni
Il partito filo-curdo Hdp denuncia una nuova ondata di arresti in Turchia alla vigilia delle elezioni amministrative di domani. Come riporta l’agenzia Dpa, la forza politica dà notizia tramite il suo sito web della cattura di 53 rappresentanti del partito arrestati dalla polizia a Istanbul. Tra le persone finite in manette ci sono anche candidati al voto per il rinnovo dei consigli municipali. L’agenzia Dha ha riferito poi di blitz effettuati nelle ultime ore dalle unità antiterrorismo della polizia in diversi distretti della città sul Bosforo senza però fornire dettagli sugli arresti. Il governo di Ankara accusa l’Hdp di legami con il Pkk, considerato “organizzazione terroristica”. In occasione del voto l’Hdp scende in campo con i suoi candidati nel sudest della Turchia a maggioranza curda e sostiene i candidati dell’opposizione nelle grandi città, comprese Ankara e Istanbul.
Si teme l’invasione della Turchia in Siria
Intanto sale la tensione tra alleati della Nato: gli Stati Uniti guardano alla Turchia e alle elezioni amministrative di domani. L’Amministrazione Trump spera che il voto sia seguito da un periodo di calma che permetta di registrare passi in avanti nei dossier aperti e superare le divergenze. Ma c’è anche chi non esclude una nuova fase di grandi difficoltà nei rapporti tra i due alleati Nato. Uno dei problemi nasce dalla determinazione della Turchia a procedere con l’acquisto dalla Russia del sistema missilistico di difesa S-400. Per gli Stati Uniti e la Nato ciò è “incompatibile” con l’alleanza e potrebbe portare allo stop alla vendita di 100 F-35 ad Ankara. Per il capo della diplomazia turca, Mevlut Cavusoglu, l’acquisto degli S-400 è ormai un “affare fatto”. Poi c’è la Siria. I piani americani di ritiro delle truppe sono stati resi più complicati dalle minacce di Ankara di lanciare una nuova offensiva contro decine di migliaia di combattenti curdi siriani che gli Usa hanno sostenuto in funzione anti-Isis, ma che per Erdogan sono “terroristi”. Donald Trump ha fatto marcia indietro rispetto all’annuncio arrivato a dicembre riguardo il ritiro immediato di tutti i duemila americani in Siria. Il mese scorso la Casa Bianca ha infatti annunciato che “un piccolo gruppo di peacekeeper di circa 200 uomini resterà in Siria per un certo periodo di tempo”. Saranno dispiegati nel nordest. Il ritiro non è ancora iniziato. Secondo un ufficiale americano, potrebbero restare un migliaio di soldati, prima che si arrivi alle 200 unità. E altre 200 truppe potrebbero restare nel sud, nei pressi del confine con la Giordania. Il colonnello Patrick Ryder, portavoce del capo degli Stati maggiori riuniti Joseph Dunford, ha escluso cambiamenti rispetto al “piano annunciato a febbraio”. La situazione resta confusa e la Turchia rimane un fattore chiave. Gran Bretagna e Francia, che hanno truppe dispiegate sul terreno, hanno fatto sapere che non proseguiranno la missione in caso di ritiro degli americani. Tutti sono d’accordo sulla necessità di mantenere una forza di antiterrorismo. Trump ha anche concordato con il leader turco Recep Tayyip Erdogan la creazione di una “zona sicura” lungo il confine turco-siriano per evitare incursioni curde, protetta da una “forza internazionale”. Ma né il Pentagono, né i francesi, né gli inglesi sono interessati e non mancano gli ostacoli legali al dispiegamento di truppe in Siria con obiettivi diversi dalla lotta all’Isis. Un altro funzionario americano ha escluso l’ipotesi di una “forza internazionale”. L’ultima idea sarebbe quella del “ritiro” dei combattenti curdi delle Unità di protezione del popolo (Ypg). Di fatto i colloqui sulla “zona sicura” non hanno sinora prodotto risultati. E stamani, chiudendo la campagna elettorale a Istanbul, Erdogan ha assicurato: “Come primo impegno post-elettorale risolveremo senz’altro la questione siriana sul campo, se possibile, e non intorno a un tavolo”.