Trattativa Stato-mafia, il processo sulla bufala giudiziaria verso la sentenza

16 Apr 2018 20:24 - di Paolo Lami

Oltre 220 udienze. Centinaia di testimoni di accusa e difesa. Una trasferta persino al Quirinale per sentire il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano . E tante polemiche. Si avvia a conclusione il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Oggi, a cinque anni dalla prima udienza, i giudici della Corte d’assise di Palermo sono entrati in Camera di consiglio per emettere la sentenza prevista per la fine della settimana.

Era il 27 maggio 2013, quando, davanti all’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, la stessa di oggi, si presentarono i pm dell’accusa, compreso Antonio Ingroia, che allora era procuratore aggiunto di Palermo e oggi è un ex-politico trombato dagli elettori. Ingroia fu pm solo per poco perché il mese successivo volò in Guatemala per ricoprire un ruolo su incarico dell’Onu. Attualmente Ingroia è indagato dagli ex-colleghi magistrati di Palermo con l’accusa di peculato per la sua attività come amministratore di “Sicilia e servizi” e gli sono stati sequestrati beni per oltre 150 mila euro, l’equivalente di quanto avrebbe intascato illegittimamente, durante la sua attività di amministratore unico e di liquidatore della società.

Sul banco degli imputati nel processo trattativa Stato-mafia dieci imputati, quattro sono appartenenti a Cosa Nostra, tra cui il capo dei capi Salvatore Riina, che nel frattempo è deceduto ma che risulta ancora alla sbarra, e poi Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà. La posizione di Bernardo Provenzano, che nel frattempo è morto, era stata stralciata per motivi di salute. Imputati anche quattro rappresentanti delle istituzioni, cioè Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Marcello Dell’Utri, accusati di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario.
Il supertestimone Massimo Ciancimino, figlio dell’ex-sindaco dc di Palermo, Vito e grande amico di Ingroia che lo ha difeso in ogni occasione, è, invece, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell’ex-capo della polizia, Giovanni De Gennaro, mentre Nicola Mancino è accusato di falsa testimonianza. Anche la posizione dell’ex-ministro Calogero Mannino e di Bernardo Provenzano, nel frattempo deceduto, furono stralciate.

La Procura di Palermo, al termine della requisitoria al processo sulla trattativa Stato-mafia, aveva chiesto la condanna a 15 anni di carcere per l’ex capo del Ros Mario Mori. Chiesti rispettivamente 12 anni e 12 anni per gli altri due ufficiali dell’Arma accusati: Antonio Subranni, prima di Mori al comando del Raggruppamento Speciale dei carabinieri, e Giuseppe De Donno. Dodici anni anche per Marcello Dell’Utri. Per l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di aver detto il falso, la Procura chiede una condanna a 6 anni. Una condanna viene chiesta anche per i mafiosi che vollero minacciare lo Stato a suon di bombe: 16 anni per Leoluca Bagarella, 12 per Antonino Cinà. Per Massimo Ciancimino, accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni Di Gennaro, la Procura chiede 5 anni. Per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, viene invece sollecitato il «non doversi procedere per intervenuta prescrizione». Stessa richiesta per il pentito Giovanni Brusca.

Tra le parti civili spiccano la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Comune di Palermo, il centro Pio La Torre. Secondo l’accusa, all’inizio degli Anni Novanta ci sarebbe stata una sorta di trattativa tra la mafia e pezzi dello Stato italiano, per raggiungere un accordo sulla fine degli attentati stragisti, in cambio dell’attenuazione delle misure detentive. Tutto partirebbe all’indomani della sentenza del Maxi-processo del gennaio 1992, quando Cosa Nostra decise di eliminare gli amici ‘traditori’ e i grandi nemici. Così, nel giro di pochi mesi furono uccisi l’eurodeputato Dc Salvo Lima, ma anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ma per i magistrati che hanno costruito il castello accusatorio della trattativa Stato-mafia, oltre alla vendetta, l’obiettivo di Cosa Nostra era anche quello di ricattare lo Stato. Così furono organizzati una serie di attentati per mettere in ginocchio le istituzioni. Secondo l’accusa, la trattativa Stato-mafia sarebbe proseguita anche oltre l’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993.

L’impianto accusatorio si basa, tra l’altro, sulle testimonianze di Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, e Giovanni Brusca.
Ciancimino, nel corso di una decina di udienze, più volte rinviate per lo stato di salute precario dell’imputato, ha ricostruito tutti gli incontri che sarebbero avvenuti fra i carabinieri e il padre. Mentre Giovanni Brusca è il primo a parlare del cosiddetto «Papello», cioè la lista di richieste di Totò Riina allo Stato. E’ ancora Brusca ad avere indicato l’ex-presidente del Senato Nicola Mancino come terminale ultimo degli accordi.

Suscitò clamore la decisione dei pm di sentire, al Quirinale, il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. L’ex-capo dello Stato venne sentito, tra le polemiche politiche, il 28 ottobre 2014. In “aula” anche l’allora procuratore aggiunto Leonardo Agueci, oltre ai pm Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. Più di recente non sono mancate ulteriori polemiche. Come lo scorso 19 ottobre, quando si registrò uno scontro tra il consulente della difesa di Marcello Dell’Utri e i consulenti della Pprocura sulle intercettazioni delle conversazioni tra il boss Giuseppe Graviano e il detenuto Umberto Adinolfi ascoltate dalle microspie in carcere, nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Gli esperti interpellati dal legale di Dell’Utri, hanno riascoltato le conversazioni captate in carcere e hanno smentito che Graviano abbia mai pronunciato la parola “Berlusca“.

Ma l’esperto ha contestato anche la trascrizione di altri due dialoghi in cui, per la Procura, si parlerebbe di Berlusconi. In uno il nome dell’ex-premier sarebbe incomprensibile, in un altro, invece di “B”, si sentirebbe “Mi”. Il giorno dopo, è il 20 ottobre scorso, lo stesso Graviano, chiamato a deporre davanti alla Corte d’assise di Palermo si è avvalso della facoltà di non rispondere. Una facoltà che gli è stata consentita in quanto indagato in un procedimento connesso. Graviano avrebbe dovuto riferire su alcune sue conversazioni in carcere col detenuto Umberto Adonolfi. I dialoghi, intercettati per mesi, sono stati ritenuti rilevanti per il processo trattativa Stato-mafia. Ora il processo è in dirittura d’arrivo.A breve si conoscerà il destino degli imputati.

Commenti

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  • Massimiliano di Saint Just 17 Aprile 2018

    Le intercettazioni in carcere non dovrebbero valere un fico secco! I detenuti sanno che vengono spiati o contattano reclusi collusi con le forze di polizia. Uno stato serio le vieterebbe!