L’ultimo saluto a Giuseppe De Lillo. Un combattente dal cuore grande
Era stracolma (e non poteva essere altrimenti) la Parrocchia di San Pio V a Roma, nel cuore del quartiere Aurelio, per l’ultimo saluto a Giuseppe De Lillo, scomparso il 16 dicembre dopo quattro mesi di sofferenze vissute con il sorriso e la speranza di chi trae la forza dalla fede, accompagnato fino all’ultimo dalla sua straordinaria famiglia e da Arianna, un angelo che non lo ha mai lasciato solo.
Quarantatré anni, ultimogenito di una storica famiglia di centrodestra impegnata in politica e nel sociale (la farmacia di piazza Irnerio è una colonna del quartiere), Giuseppe, settimo della “nidiata” De Lillo, aveva solo 43 anni, vissuti con un’intensità unica. «Valgono non una ma cento vite», racconta il fratello Stefano tracciando il profilo di Giuseppe di fronte alle centinaia di amici, parenti, ex compagni di scuola, sacerdoti. Vissuti all’insegna del dono disinteressato, dell’amore per gli ultimi ai quali non risparmiava il suo tempo e le sue disponibilità economiche, nella convinzione che l’esistenza avesse un senso solo per le opere di carità da “portare in dote” in Paradiso. «Siamo ricchi solo di quello che abbiamo donato», ripeteva spesso parafrasando un celebre motto dannunziano.
Giuseppe aveva iniziato giovanissimo la sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, nella sezione Prati di via Ottaviano, non certo alla ricerca di cariche o di pennacchi. E infatti non entrò mai nel Palazzo, il suo destino era altrove. Forse anche per responsabilità di due fratelli “ingombranti”, Stefano e Fabio esponenti di spicco di Forza Italia, stretto tra la fedeltà familiare e le sue idee “più a destra”, non aveva scelto la carriera elettiva preferendo la concretezza del volontariato. Solo una volta si candidò alle regionali con il centrodestra, «ma fu quando si persero le liste», ricorda Stefano, medico sportivo e già senatore azzurro, facendo sorridere i presenti con gli occhi lucidi e allentando la tensione. Tra le sue esperienze anche il seminario nei Legionari di Cristo, un percorso trasferito poi come laico nell’impegno di tutti i giorni. Psicologo sui generis, alle soddisfazioni “terrene” garantite da uno studio privato, preferì l’ascolto dei più sfortunati, di detenuti e di giovani senza futuro.
Fondò l’associazione Natale 365 e realizzò decine di iniziative sociali. «Io mi arrabbiavo, gli dicevo “ora pensa alla tua professione, pensa al futuro personale, alla pensione…”», confessa Stefano. Ma lui era fatto di un’altra pasta. Lo ricorda così anche il fratello Fabio: «Non basterebbe lo Stadio Olimpico per contenere tutte le persone che lo hanno amato e che lui ha amato». Giuseppe era un combattente dal cuore grande che catturava chiunque si imbattesse nel suo sorriso. Un ragazzo di grande cultura, sempre alla ricerca di una spiritualità sofferta e mai conquistata per sempre.
«La condizione umana, a ben vedere, appare assai paradossale e drammatica», scrisse sulla rivista online Zenit, «l’uomo: desiderio sconfinato ed assoluto in un involucro di caducità. Anelito di stelle dissolte nella polvere. L’uomo: spirito incarnato, né angelo né bestia, un ibrido assurdo e straordinario. L’uomo: slancio titanico all’inseguimento di un’infinita beatitudine si infrange su di una macabra certezza, che tutto dovrà finire. “Io voglio essere felice e voglio che le persone che amo siano felici e che lo siano per sempre”: il grido più profondo della nostra anima. Rimbomba come una eco silente, sfondo di ogni giudizio ed azione. La ricerca della felicità è il desiderio più radicale di ognuno di noi. Ma che valore potrà avere una felicità condannata all’impermanenza, con una data di scadenza inoculata nell’anima? La vita reclama ed esige l’eterno, l’immortalità. Ma per quanto ognuno di noi si possa affaccendare e sforzare a tutelare la persona amata, i propri cari, a nessuno di noi è dato poter aggiungere un istante in più al tempo loro concesso». Parole quasi profetiche che fotografano la sua statura morale (oltre che fisica Giuseppe era bello, atletico, il ritratto della salute). «L’immortalità ci travalica, ci oltrepassa. E’ un dono sovraumano. L’uomo da solo non è in grado di vincere la morte». Ma la morte è l’alba della vita.