Mafia Capitale, ecco perché la sentenza è rivoluzionaria
Delinquenti sì, mafiosi no. Per chi non mastica di diritto cambia poco. Anzi, c’è da scommettere che l’esultanza degli avvocati o, di contro, la mestizia dei pm per una sentenza che ha comminato anni di condanna a due cifre, risulta ai più addirittura incomprensibile. Chi ha seguito l’inchiesta “Mafia Capitale” e il processo che ne è derivato, sa invece benissimo che, tra accusa e difesa, la vera posta in palio di questo primo grado era rappresentata proprio dalla qualificazione giuridica dell’organizzazione criminale messa in piedi da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi: mafiosa per la procura capitolina; non mafiosa per gli avvocati. Il collegio giudicante ha accolto quest’ultima opzione e questo spiega la delusione dei pm e la soddisfazione delle difese. Sarebbe tuttavia riduttivo se esaurissimo il tutto nell’assegnare vittorie e sconfitte o nel distribuire torti e ragioni. Nella sua essenza più profonda, infatti, la sentenza di ieri su Mafia Capitale ha riaffermato una verità quasi rivoluzionaria: il malaffare e la corruzione si possono combattere, reprimere e punire senza uscire dal perimetro del diritto ordinario, senza cioè raggiungere quel confine oltre il quale le garanzie dell’imputato evaporano in nome del sacrosanto impegno contro mafia, camorra e ‘ndrangheta, il cui tratto distintivo non consiste solo nel ferreo controllo del territorio, nel patto d’omertà o nel ricorso alla violenza ma – e qui sta la peculiarità – nell’affidare a ciascuno dei suoi affiliati il potere di sprigionare la forza intimidatrice dell’organizzazione. Chi malauguratamente la subisce, ne resta atterrito perché sa che, ove mai non vi soggiaccia, non esisterebbe luogo al mondo in cui potersi dire al sicuro. Tanta virulenza – lo comprenderebbe anche un bambino – non si combatte con strumenti ordinari. Apposta il legislatore ha affiancato al diritto “normale” uno “speciale” che in tutte le fasi in cui si dipana un procedimento giudiziario fa prevalere l’interesse collettivo sulle garanzie del singolo. La pretesa della procura capitolina era quella di tratteggiare Mafia Capitale come una mafia di nuovo conio distillata da un mix di corruzione e cravattari, coop rosse e terroristi neri, amministratori comunali e spacconi alla “Spezzapollici”. Se il tribunale avesse sposato questa tesi, tutto sarebbe diventato mafia per cui niente più sarebbe stato, veramente, mafia. Ma non è andata così: ha vinto il diritto “ordinario” grazie al quale è stato possibile comminare pene molto alte senza connotare come mafioso ciò che mafioso, in termini di legge, non è mai stato. Una buona notizia.