(Mafia) Capitale non esiste, qualcuno lo dica in un orecchio a Pignatone

20 Lug 2017 19:12 - di Paolo Lami

La mafia a Roma non esiste. La X Sezione del Tribunale di Roma, guidata dal presidente Rosanna Ianniello, chiamata a giudicare la solidità del castello accusatorio messo in piedi dalla Procura di Roma con l’indagine “Mondo di Mezzo“, poi mediaticamente trasformata in “Mafia capitale“, ha stabilito che quella non è mafia. Certamente non è Mafia Capitale. Al massimo si può parlare di corruzione e di associazione a delinquere. Ma non mafiosa.

Una débâcle imbarazzante per la Procura di Roma che su questa indagine aveva scommesso tutto arrampicandosi pericolosamente sugli specchi nel tentativo di giustificare una ricostruzione molto fantasiosa: Carminati capo di Buzzi e capo di una consorteria mafiosa che minaccerebbe, ma senza armi, al massimo una spada katana, che spanderebbe terrore ma, poi, di fronte a un ragazzino che li ha sòlati, come si dice a Roma, si dispera per la perdita di 30.000 euro e medita un suicidio. Insomma una macchietta più che una Cupola. Con alcuni scivoloni. Come la richiesta della Procura di condannare Luca Odevaine, l’ex-braccio destro di Walter Veltroni al Campidoglio, a soli due anni per la “collaborazione” data all’inchiesta. Senonché il Tribunale l’ha condannato a 6 anni e 6 mesi aprendo una breccia nel muro che la Procura aveva costruito.

Nel corso del processo gli avvocati difensori degli imputati hanno avuto buon gioco a smontare le accuse e le ricostruzioni ardite, chiamando in controesame carabinieri del Ros che spesso si sono contraddetti e hanno contraddetto clamorosamente le tesi della Procura che li considerava testimoni a favore, madando tutto all’aria e preparando la strada a una sentenza come quella di oggi. Insomma, un disastro. Forse la dimostrazione migliore di come non andrebbe mai fatta un’indagine, fra ricostruzioni non riscontrate e veri e propri errori marchiani.

Mafia Capitale, insomma, non esiste. E ora bisogna che qualcuno lo dica in un orecchio anche a Giuseppe Pignatone, deus ex machina di quella straordinaria campagna mediatico-giudiziaria che va sotto il nome di (Mafia) Capitale. E già che ci siamo, qualcun altro dovrà dirlo – per quel poco che vale e rileva – anche a Lirio Abate, il giornalista, grande amico di Pignatone, che su (Mafia) Capitale s’è costruito una formidabile carriera incensata perfino dalla concessione di una scorta armata a sua tutela – ma sembra che gliela stiano per revocare – e da una sovraproduzione di libri molto fantasiosi sull’argomento.

Già perché nel giorno in cui la X Sezione del Tribunale di Roma fa a pezzi il lavoro della Procura di Roma guidata da Pignatone che sull’indagine Mafia Capitale ci ha messo la faccia fin quasi all’ultimo – oggi il procuratore capo non s’è fatto vedere in aula accanto ai suoi tre pm, forse subdorando la batosta da vecchia volpe qual’è – non si può non ricordare come iniziò la faccenda. Non con lo spettacolare arresto filmato il 4 dicembre 2014 in presa diretta dai carabinieri del Ros mentre bloccavano Carminati e il figlio in via Monte Cappelletto, una stradella di campagna di Roma nord, armi in pugno, facendo il verso a Squadra Antimafia con svelto linguaggio d’ordinanza «scendi, scendi da questa cazzo di macchina!». No, la faccenda iniziò ben 2 anni prima, il 12 dicembre 2012 – e i conti tornano – quando Lirio Abbate, pubblicò, con grande evidenza su L’Espresso l’articolo “I quattro re di Roma“, intendendo, appunto, Carminati e i boss Fasciani, Senese e Casamonica che s’erano, spiegava l’articolessa, spartiti Roma.

«Sembra un piccolo borghese, perso tra la folla della metropoli – scriveva Lirio Abbate di Carminati esattamente due anni prima dell’arresto – ma ogni volta che qualcuno lo incontra si capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l’occhio sinistro riporta i segni di un’antica ferita…». E sembra quasi, col senno di poi, che Abbate stesse guardando, mentre scriveva il suo pezzo, magari chiuso in una stanzetta della caserma dei Ros di Ponte Salario, proprio uno dei video che, in quei mesi i carabinieri del Ros filmavano, da lontano, mentre Carminati incontrava gente a Roma Nord. Possibile? No, certamente non può essere così. Certamente non può essere che qualcuno abbia raccontato a Lirio Abbate, due anni prima dell’arresto di Carminati, cosa stavano facendo, in quei giorni i carabinieri del Ros e la Procura di Roma. Non può essere che qualcuno stesse spifferando ad Abbate, due anni prima della clamorosa operazione di polizia, oggi sbugiardata dalla sentenza, come stavano costruendo il castello accusatorio investigatori ed inquirenti.

Ora si dirà: come ha fatto quel bravo giornalista di Lirio Abbate a indovinare – fino al millimetro – l’inchiesta che sarebbe esplosa esattamente due anni dopo? C’entra, per caso, la sua vecchia e solida amicizia con Pignatone? Che Abbate sappia leggere nella testa del suo amico magistrato? Chissà, può darsi. Fatto sta che quel 2 dicembre, quando esce l’articolo di Abbate, l’inchiesta “Mondo di Mezzo – Mafia capitale” stava andando avanti da un pezzo, dal 2011, esattamente. E chi la coordinava fin dal marzo 2012? Chi sovrintendeva all’inchiesta della Procura di Roma che doveva dimostrare l’esistenza della mafia a Roma? Nientedimeno che Giuseppe Pignatone nominato, nel marzo 2012, dal Csm, capo della Procura della Capitale.

In molti oggi si aspettavano di vederlo lì, accanto ai suoi pm, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia dove si sarebbe dovuta certificare l’esistenza della mafia a Roma. E dove, invece, è affondata in un pluff l’inchiesta Mafia Capitale.

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