Donne mutilate, sono 200 milioni. È una pratica soprattutto islamica
Bambine mutilate, “incise”, violate nella loro sessualità, e non solo. Sono le donne, ben 200 milioni nel mondo, vittime di mutilazioni genitali, pratiche che vanno dall’incisione all’asportazione, parziale o totale, dei genitali femminili esterni. Bambine, ragazze e donne che devono fare i conti, per tutta la vita, con rischi gravi e irreversibili per la loro salute, oltre a pesanti conseguenze psicologiche. Non solo. Sono 3 milioni all’anno le bambine a rischio nel mondo, Europa compresa, dove si stima in circa 500.000 le donne che ci convivono e 180.000 quelle a rischio. Secondo l’obiettivo fissato dall’Onu, le mutilazioni dovrebbero essere totalmente bandite entro il 2030. Gran parte delle ragazze e delle donne che subiscono queste pratiche si trova in 29 Paesi africani, mentre una quota decisamente minore vive in Paesi a predominanza islamica dell’Asia. Si registrano casi anche in Europa, Australia, Canada e negli Stati Uniti, soprattutto fra gli immigrati provenienti dall’Africa e dall’Asia sud-occidentale: si tratta di episodi che avvengono nella più totale illegalità, e che quindi sono difficili da censire statisticamente. Le mutilazioni – come ricorda l’Unicef – vengono praticate su bambine tra i 4 e i 14 anni di età, ma anche su piccole con meno di un anno di vita – per una serie di motivazioni: da quelle sessuali, per soggiogare o ridurre la sessualità femminile, a quelle sociologiche, come l’iniziazione delle adolescenti all’età adulta o il mantenimento della coesione nella comunità, fino a ragioni igieniche ed estetiche, perché in alcune culture i genitali femminili sono considerati portatori di infezioni e osceni, e religiose, molti credono che questa pratica sia prevista da testi religiosi (Corano).
L’Onu non è riuscito a concludere molto sinora
La condanna alle mutilazioni genitali femminili è unanime, e in questo senso l’obiettivo dell’Onu (il bando entro il 2030) è chiaro: le mutilazioni sono considerate, infatti, in qualunque forma, una palese violazione dei diritti della donna. Sono discriminatorie e violano il diritto delle bambine alla salute, alle pari opportunità, a essere tutelate da violenze, abusi, torture o trattamenti inumani, come prevedono tutti i principali strumenti del diritto internazionale. E le ragazze che le subiscono sono private anche della capacità di decidere sulla propria salute riproduttiva, come ricorda l’Unicef. Oltre che umilianti, sono estremamente dolorose e pericolose. Le bambine che vi sono sottoposte possono morire per cause che vanno dallo shock emorragico (le perdite ematiche sono cospicue) a quello neurogenico (provocato dal dolore e dal trauma), all’infezione generalizzata (sepsi). Per tutte, l’evento è un grave trauma: molte entrano in uno stato di shock a causa dell’intenso dolore e del pianto irrefrenabile che segue. Conseguenze di lungo periodo sono la formazione di ascessi, calcoli e cisti, crescita abnorme del tessuto cicatriziale, infezioni e ostruzioni croniche del tratto urinario e della pelvi, forti dolori mestruali e nei rapporti sessuali, più rischi di contrarre Hiv/Aids, epatite e altre malattie veicolate dal sangue, infertilità, incontinenza, più rischi di mortalità materna. Ma il fenomeno delle mutilazioni è presente anche in Italia, dove si stima che nelle comunità di immigrati, le donne straniere maggiorenni con mutilazioni genitali femminili siano tra le 46mila e le 57mila, a cui si aggiungono le neocittadine italiane maggiorenni originarie di paesi dove la pratica esiste (quantificate tra le 11mila e le 14mila unità) e le richiedenti asilo. Oltre il 60% delle donne con mutilazioni genitali femminili presenti in Italia proviene da Nigeria ed Egitto. Le cifre arrivano da un’indagine condotta nell’ambito del progetto Daphne MGF-Prev, coordinato in Italia dall’Università degli Studi di Milano-Bicocca.