Figli che muoiono, genitori impotenti: il caso di Lavagna scuote le coscienze

17 Feb 2017 13:22 - di Alessandro Moscè

I figli che muoiono lasciano una lettera. I figli che muoiono inducono i genitori ad intervenire pubblicamente sull’altare di una chiesa, il giorno del funerale. C’è il ragazzo che non ce la fa perché non sopporta più di essere inoccupato, la mancanza di una dignità personale che solo il lavoro può garantire, ma c’è anche chi non ce la fa perché ha scelto di intraprendere una via senza sbocco: autolesionismo, droga, alcool, malavita. Oggi i giovani fanno i conti con una fase storica pregiudizievole, che certamente li penalizza sul piano economico. La società non è più autosufficiente e non sa dare ciò che si cerca per soddisfare un bisogno primario.

La madre di Lavagna

Allora i figli vivono chiusi nel loro guscio impenetrabile, nella loro realtà parallela, virtuale, allusiva, frustrante. Si muore anche di vergogna, di fronte ai genitori. E’ il caso di un ragazzo di Senigallia, ludopatico, che si è impiccato. Colpisce ciò che ha detto la madre adottiva del sedicenne che si è ucciso a Lavagna, in Liguria. “Un pensiero particolare va alla Guardia di Finanza. Grazie per avere ascoltato l’urlo di disperazione di una madre che ha provato con ogni mezzo di combattere la guerra del figlio contro la dipendenza prima che fosse troppo tardi. Non c’è colpa né giudizio nell’imponderabile, e dall’imponderabile non può che scaturire linfa buona con ancora più energia per la lotta contro il male”. Questi figli sono spesso deresponsabilizzati e mancano di convinzioni. Sono cresciuti negli Ottanta e Novanta, nel periodo dell’opulenza. Non hanno ideali.

I genitori che erano antisistema

I loro genitori scendevano in piazza, erano fascisti, comunisti, radicali. Si univano in realtà corporative, in movimenti che contrastavano l’operato del sistema, forse con eccessiva veemenza. Ma avevano impresso, appunto, un senso alla loro vita, capendo che esiste una dimensione pubblica, qualcosa di comune per cui darsi di fare. E’ forse questa la linfa buona, alla quale alludeva quella madre in chiesa? Oggi ogni principio di autoaffermazione nega la collettività e riduce il giovane all’individualismo. Se non riesce ad imporre il proprio volere, non c’è nient’altro che possa motivare.

I figli devono uscire dalle loro stanze

Formare i figli, ma come? Educarli. Sì, ma dove? Cosa significa un valore, un comportamento, un’adesione, un rifiuto? Oggi sembra tutto indecifrabile e nebuloso. I giovani non hanno criticità. E da questo aspetto sottovalutato che bisognerebbe ricominciare, perché i figli escano da loro stessi, dalle loro stanze, dallo sguardo basso rivolto al computer, a Facebook, a Whatsapp. I giovani non si incontrano più, si parlano via telefono. Che riscoprano il piacere del mondo associazionistico, dell’interesse che li fa essere un gruppo, un’entità definibile, non solo soggetti solitari. Che sognino, come sognavano i loro padri che credevano nella rivoluzione. Qualcuno di loro ha fatto il 1977, contestava i partiti, i sindacati, il governo, la scuola classista. Oggi chi parla più di controcultura, di alternativa? ”L’ideale è il possibile di domani”, sosteneva Arturo Graf.

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