Dopo Dacca, l’Islam italiano deve prendere le distanze dal terrore globale
«Anche l’Islam italiano deve uscire dall’ambiguità e prendere con chiarezza le distanze dal terrore globale, ma purtroppo è difficile trovare interlocutori attendibili». Riccardo Pacifici, esponente di primo piano del mondo ebraico italiano e a lungo presidente della Comunità romana, lancia l’allarme: «Non tutto il mondo islamico è assimilabile al terrorismo, è fuori di dubbio, ma l’adesione di molti predicatori delle nostre moschee ai Fratelli musulmani è un segnale da non sottovalutare», spiega a QN.
Vengano chiusi i luoghi di culto islamici non sicuri
Perché Pacifici, qual è il legame con le azioni sanguinarie? «Un’associazione che definisce porci gli ebrei, auspicando la scomparsa di Israele e di tutti gli infedeli, è una fonte di pericolo che va ben oltre le parole di circostanza espresse dai suoi rappresentanti in occasione di ogni nuovo massacro». Cosa si dovrebbe fare allora? «Chiudere le moschee non sicure, ma al tempo stesso aprirne di nuove pienamente trasparenti. Dai princìpi che hanno fondato le nostre democrazie deriva il giusto dovere morale dell’accoglienza e della solidarietà umana nei confronti di chi viene a vivere qui. Ma al tempo stesso bisogna essere vigili e non fare sconti a chi ha scopi diversi».
Integrazione passa attraverso il rispetto dell’identità nazionale
Quale può essere la strada da seguire? Su che basi si imposta una piena integrazione? «So che può apparire un paradosso, perché le comunità ebraiche sono insediate qui da duemila anni e noi siamo italiani da generazioni, ma il nostro percorso può essere un esempio: una forte difesa della propria identità religiosa inserita nel pieno rispetto dell’identità nazionale». Non ci sono davvero controparti nel mondo islamico italiano in sintonia con questa prospettiva? «Posso citarne uno: l’imam Pallavicini, del Coréis, insieme al quale facciamo attività importanti anche all’interno delle scuole. Per il resto è dura, prevale l’ipocrisia. In un tweet mi sono stupito che il rappresentante della comunità palestinese italiana, ospite di una trasmissione Rai, in 24 ore non avesse trovato il tempo di condannare l’accoltellamento nel suo letto della tredicenne Hillel Yafà Ariel, a Hebron, da parte di un ragazzino di 17 anni. Un altro omicidio figlio della cultura dell’odio, di una pericolosa commistione tra religione e ideologia, che sta dilagando sempre di più anche in Europa, con nuovi inquietanti timori».