L’assassinio di Paolo Di Nella 33 anni fa a Roma: un crimine ancora impunito

9 Feb 2016 15:59 - di Antonio Pannullo

«Aspettammo per giorni che lui riaprisse gli occhi, ma il 9 febbraio 1983, alle 20,05 il cuore di Paolo Di Nella cessò di battere». È la testimonianza di uno degli allora ragazzi del Fronte della Gioventù, che dal 2 febbraio al 9 vegliarono incessantemente nell’atrio dell’ospedale romano dove era stato ricoverato il giovane militante del FdG di via Sommacampagna dopo essere stato proditoriamente aggredito da due elementi dell’Autonomia Operaia, movimento molto attivo nel quartiere Africano della capitale e che da anni si distingueva per azioni violente nei confronti dei “fascisti” o di chi veniva ritenuto tale.  Quella di Paolo Di Nella fu l’ultima morte degli anni di piombo, quegli anni in cui uccidere un fascista non era reato. Ma fu l’ultima non tanto perché per la prima volta anche le istituzioni si accorsero dell’ennesimo delitto contro un giovane missino, ma perché fu proprio il mondo missino di allora a dire basta, a rinunciare non alla giustizia ma alla vendetta: fu deciso, nel nome di Paolo, di interrompere la spirale della violenza e del sangue, in attesa che arrivasse la giustizia. Ma questa, purtroppo, invece non arrivò mai, come per altri omicidi politici precedenti, da Cecchin a Mancia, dai ragazzi di Acca Larenzia a Pistolesi, a tanti, tanti altri. Paolo, come tutti ragazzi schierati dalla sua parte politica, credeva fermamente in tutto quello che faceva: in quei giorni si stava occupando di far diventare il parco di Villa Chigi un centro sociale e culturale e i manifesti che era ad affiggere quella maledetta sera invitavano proprio a firmare la petizione. Era andato con la sua ragazza, Daniela Bertani, che guidava l’auto mentre lui scendeva e attaccava. Quella volta, purtroppo, erano solo in due ad attaccare, ma sembrava una delle solite affissioni brevi e tranquille. Come racconta Giulio Buffo, amico di Paolo e uno degli ultimi a vederlo, «il quartiere Trieste era particolare, l’Aniene era un confine naturale con le “terre nemiche”, ma anche al suo interno manteneva sacche di resistenza come l’Africano dove convivevano i resti della sezione del Pci di via Tigrè, ritrovo di elementi del servizio d’ordine del partito e della Cgil metalmeccanici, e il comitato di lotta africano, vicino all’autonomia; mentre villa Ada era luogo di ritrovo per tribù nomadi di compagni che ci passavano interi pomeriggi. L’agibilità politica del quartiere era stata conquistata a caro prezzo: Francesco Cecchin nel ‘79, accoltellamenti, agguati fuori scuola, bombe sotto casa, ma la presenza di gruppi attivistici di diversi gruppi aveva, non solo retto l’assalto, ma, lentamente, ripulito il quartiere». Insomma Paolo, esile, chiuso, capelli lunghi come molti, «mischiava rock, musica alternativa e Baglioni; politicamente era totalmente intransigente, tradizionalista e ambientalista, insomma, era pronto per la sua personale guerra santa. Un militante perfetto per gestire il passaggio dal vecchio Fronte, chiuso a difesa della città assediata, al nuovo Fronte aperto e protagonista del nuovo corso che avrebbe cambiato l’Italia».

L’aggressione a Paolo Di Nella fu improvvisa e alle spalle

Mentre Paolo e Daniela affiggono, due ragazzi in motorino passano più volte osservando con insistenza, altri due erano a piedi a piazza Gondar, in fondo a viale Libia, presso la fermata dell’autobus. Mentre Paolo sta attaccando di fronte a Motta, ossia dove oggi è la scritta in suo ricordo, i due ragazzi, uno con un piumino blu l’altro rosso, gli arrivano alle spalle e colpiscono Paolo con un oggetto contundente, pesante, devastante. Poi fuggono. Paolo è disorientato, si sciacqua la testa alla fontanella, fa giurare a Daniela di non dire nulla a nessuno, si fa riportare a casa. I manifesti erano stati tutti strappati. Durante la notte i genitori si accorgono che il ragazzo aveva qualcosa che non andava: non dorme, ha la nausea, i vestiti sono sporchi di sangue. Arriva l’ambulanza che lo porta al Policlinico Umberto I, dove Paolo entra in coma. Operato d’urgenza per un grosso ematoma, ha l’osso temporale sfondato. Il giorno dopo Daniela racconta cosa è successo e i giovani, increduli, corrono all’ospedale dove veglieranno per giorni e notti nella più totale disperazione. In quella settimana furono effettuate affissioni per denunciare l’accaduto, fu fatto un corteo per il quartiere, assemblee nelle scuole, ma a nessuno sembrava gliene fregasse qualcosa: al Giulio Cesare si arrivò a confermare il diktat che uccidere un fascista non è reato. Il 5 febbraio, improvvisamente, la polizia sgomberò la sala d’attesa dell’ospedale, e poco dopo fu chiaro il perché: era arrivato, inaspettato, il presidente della Repubblica Sandro Pertini, che con uno dei gesti impulsivi per cui era famoso, aveva deciso di andare a trovare quel ventenne che stava morendo. I ragazzi erano tutti nel cortile, ma una di loro, una delle militanti più attive, Marina, si lancia sulle scale e intercetta Pertini; il servizio d’ordine prova a fermarla ma è lo stesso presidente che ordina di lasciarla passare. Marina urla in faccia al vecchio partigiano: «Questo è il frutto dell’odio che avete alimentato per quarant’anni! Ci stanno ammazzando tutti!». Pertini la guarda in faccia, resta a capo chino in silenzio, le posa una mano sulla spalla e si allontana. Il suo gesto ebbe più valore di mille discorsi: alla visita del presidente seguì quella del sindaco comunista di Roma, Ugo Vetere, il telegramma di solidarietà alla famiglia da parte di Enrico Berlinguer, allora segretario del più grande partito comunista d’occidente, e un articolo come quello scritto da Giuliano Ferrara su Repubblica: «… Se questo ragazzo scelse di dirsi fascista e concepì per la sua vita futura di vivere da fascista, ebbene, aveva il diritto di scegliere e di vivere così».

Il Fronte: «Con Paolo Di Nella è morto un combattente»

Ancora il ricordo di Giulio: «Dieci febbraio 1983, ore 5,00. Camera mortuaria del Policlinico. Il corpo di Paolo è avvolto in un sudario bianco, stretto in vita da una sottile fettuccia che mette in risalto la figura sottile e slanciata, distesa e quasi inarcata in una compostezza scultorea. Il volto, chiuso e concentrato in una intensità sconvolgente, rivela ancora il soffio di vita che lo animava fino a poche ore prima. Un giglio bianco infilato nella fettuccia – omaggio di una infermiera che aveva saputo che proprio quel giorno Paolo avrebbe compiuto vent’anni – sigilla una immagine di incredibile purezza». Il Fronte emise di lì a poco questo comunicato: “Con Paolo di Nella è morto un combattente per il proprio popolo, un nazional-rivoluzionario. Nessuno si permetta di offendere questo martire con inutili isterismi: l’unica vendetta è continuare la sua lotta contro il sistema che lo ha assassinato”.  Ciò mise la parola fine agli anni di piombo. Al suo funerale, quando la bara avvolta nella bandiera con la croce celtica uscì dalla chiesa di piazza Verbano, a migliaia salutarono Paolo Di Nella col braccio teso. Il volantino di rivendicazione dell’assassinio viene ritrovato il 14 febbraio, in una cabina telefonica di piazza Gondar, a pochissimi metri da dove Paolo è stato aggredito. È firmato da Autonomia Operaia: “La soppressione di un fastidioso nemico politico rientra in un preciso programma dell’Autonomia operaia che ora si avvale della collaborazione di altri comitati” e definisce l’aggressione una “gloriosa azione politica”. L’ultimo atto della vicenda avviene nel dicembre del 2008, il papà di Paolo è morto e la famiglia ha deciso di farli riposare insieme. La bara di Paolo viene lentamente tirata fuori e appaiono ancora quei colori: il rosso, il bianco, il nero; per venticinque anni la bandiera con la celtica ha riposato insieme a Paolo. La bara di Paolo viene messa vicino a quella del padre, si stende di nuovo sopra la sua bandiera, e c’è una piccola scritta: “Caduto per la Rivoluzione”.

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