Buttafuoco: le periferie invivibili? Le hanno costruite i comunisti

19 Nov 2014 13:19 - di Francesco Severini

Le periferie esplodono perché prive di bellezza, di armonia. L’aggressività si indirizza contro il “nemico” di turno perché la qualità della vita in certi non-luoghi deperisce: la colpa è di chi ha costruito palazzoni-alveare come Corviale o residenze come lo Zen di Palermo ispirandosi all’architettura collettivista di sinistra. Lo sottolinea lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco in un’intervista al Giornale e lo spunto è tratto dall’attualità recente: gli scontri di Tor Sapienza ma anche l’insofferenza che sta dilagando all’Infernetto o la guerriglia attorno alle case occupate di Milano.

Un quartiere di tradizione comunista

“Non a caso Tor Sapienza – afferma Buttafuoco – è un quartiere di tradizione comunista, uno dei posti chiave della mobilitazione di sinistra. Il mito architettonico della città ideale si è incarnato in palazzoni e colate di cemento. Luoghi dove la gente vive come se si trovasse infilata in scaffali”. Il disagio antico e stratificato è dunque figlio di una “congiura” urbanistica mirante alle “baraccopoli di cemento”. Quando parliamo di recupero delle periferie facciamo allora riferimento a un’impresa che ha dell’impossibile perché è proprio la cultura su cui certi spazi vengono edificati a risultare sballata e anti-umana.

Il non luogo di Augé

Non a caso il non-luogo di Marc Augé si identifica come “vuoto” di relazioni, di significato e di identità. Di qui la solitudine delle periferie che magari si cerca di compensare con la confusione h24 dei centri commerciali. La periferia diventa così protagonista della letteratura giovanile di successo come nel caso del romanzo Stalin+Bianca di Iacopo Barison, il cui protagonista è un ragazzo cresciuto in una periferia grigia, metafora di non senso. Ma la periferia è anche assedio e assalto alla città identitaria, quella dei quartieri dove – come racconta Filippo La Porta nel suo ultimo libro Roma è una bugia – ancora è possibile ritrovarsi e dialogare e dove un bar, una piazza, un angolo resistono come “centri di formazione” capaci di catturare storie e stati d’animo. Dove tutto questo manca, rimane solo la rabbia.

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