Renzi in prima pagina diventa il “ducetto”. Da Forattini in poi la camicia nera è stata aureola o condanna per i leader politici

15 Feb 2014 10:35 - di Redattore 54

L’ultimo che si ricordi, tra i leader più convincenti in posa ducesca, è stato Bettino Craxi, caricaturizzato da Giorgio Forattini. E proprio Forattini raccontò a Prima Comunicazione che era stato Silvio Berlusconi, all’epoca, a cercare di intercedere per il leader socialista: “Guarda – mi disse – che non è un fascista…”. Eh già. E poi sarebbe toccato allo stesso Berlusconi subìre il paragone (non certo disonorevole, a conti fatti, perché è sempre meglio essere equiparato per decisionismo a un dittatore che evaporare nell’oblio per avere scaldato la poltrona). Silvio è stato accostato spesso a volentieri a Mussolini ma soprattutto per le sue vivaci scorribande amorose, in pratica per quelle “cene eleganti” che nell’immaginario gli hanno fatto meritare, per ardita analogia, paragoni col Duce che, secondo il cameriere di Palazzo Venezia Quinto Navarra, se ne portava ogni giorno una diversa nel suo studio.

Ora il paragone con il Dux torna nel campo della sinistra (pur se disastrata) grazie alla prima pagina di Libero che raffigura un Renzi con copricapo da gerarca e fascio littorio, stivaloni neri puntati sulla scrivania di un Giorgio Napolitano acquiescente e mani sui fianchi come quando Lui si affacciava dal balcone di Piazza Venezia. Titolo: il ducetto. Nessuno lo ha eletto, è il ragionamento del direttore Maurizio Belpietro, eppure il Quirinale ce lo rifila come premier. Il golpetto, dunque, che produce il ducetto. E persino Repubblica si domanda oggi (l’articolo è di Filippo Ceccarelli) se la fretta con cui Renzi viene collocato a Palazzo Chigi sulla scia di assai poco rappresentative primarie, se quell’Adesso! usato come slogan dal sindaco di Firenze così assertivo e impaziente, non nascondano un cambio di passo troppo repentino nella tradizione politica italiana abituata ai rinvii morotei, ai passettini andreottiani, alle mediazioni interminabili dietro le quinte. Rivoluzione dell’ambizione, allora. Non certo rivoluzione fascista.

Più sofisticata la critica del Manifesto. Che ha ricollocato Renzi nel suo contesto, tra i suoi modelli naturali, Fonzie e Mazinga, (mica Sorel e Gentile, per intenderci) e gli ha dedicato un titolo silurante: Happy days. Giorni felici. Eccolo qua il “meglio che deve ancora venire”. Una marcia su Palazzo Chigi condotta sulla pelle del povero Enrico Letta e del povero Pd. Il partito “spompo” di un improbabile ducetto.

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