Bene la fine dei soldi ai partiti. Ora tutti dicano come si finanziano (soprattutto Grillo)

3 Gen 2014 19:11 - di Aldo Di Lello

Ci vuole decisamente coraggio, in questi tempi di antipartitismo e di antipolitica diffusi e intransigenti, a difendere il principio del finanziamento pubblico dei partiti. L’unico a osare tanto non poteva essere, va da sé, un politico, ma un politologo. Parliamo di Piero Ignazi, il quale, su la Repubblica di venerdì 3 gennaio, definisce una «cura sbagliata» il recente decreto legge del governo Letta, che, per l’appunto, sancisce la fine del sostegno finanziario alle forze politiche. Per Ignazi, tale provvedimento contiene «due errori strategici». Il primo è quello di aver dato ragione a Beppe Grillo, il quale, una volta entrati sul suo terreno, non potrà mai essere raggiunto, essendo di fatto diventato il «proprietario» (purtroppo a causa dell’incuria e , soprattutto, della furbizia dei partiti) della battaglia sui costi della politica. In effetti, appena varato il decreto, il leader del M5S ha immediatamente parlato di «presa per il c…», avanzando, subito dopo, un’altra richiesta: «Ora restituite i soldi». Né, d’altronde, l’opinione pubblica pare essersi accorta dell’iniziativa “moralizzatrice” del governo, tant’è , come risulta da una ricerca di Ilvo Diamanti pubblicata pochi giorni fa, che la fiducia nei partiti è crollata ai minimi storici.

L’altro errore «strategico» consiste nel non proporre una «visione alternativa» al tema, cruciale (piaccia o piaccia) per ogni democrazia, del finanziamento della politica. Di qui Ignazi elenca cinque vizi del decreto: 1) con l’abolizione  «in toto» dell’erogazione di fondi pubblici, ci si allontana da «tutti i paesi europei (Svizzera  esclusa)»;  2) la legge reintroduce la norma che «fallì clamorosamente» nel 1997 del due per mille (allora era il quattro); 3) si introducono detrazioni fiscali troppo «generose»; 4) il controllo dei bilanci si «limita alla loro regolarità e conformità»; 5) «non si pone un limite al tetto delle spese». Insomma, il decreto del governo «rinforza la natura privatistica dei partiti e allontana la prospettiva di una loro regolarizzazione». Ignazi propone di individuare la visione alternativa in Europa, dove la concessione dei contributi ai partiti è regolata da leggi che fissano anche le «linee guida cogenti» dei loro statuti e «definiscono il quadro» entro cui i partiti stessi  operano. Detto in altri termini, tipi come  Lusi o Belsito sono assenti  nella politica tedesca o quella francese, non perché a Nord  delle Alpi siano più “virtuosi” di noi, ma semplicemente perché le leggi non li rendono possibili (ancorché, naturalmente, gli scandali scoppiano anche da quelle parti).

Ed è forse qui il punto cruciale di un dibattito serio sui costi della politica (che sono anche i costi della democrazia).  Smettiamola di pensare che il problema del finanziamento dei partiti sia esploso in Italia solo perché i partiti hanno attirato da noi, non soltanto tanti galantuomini, ma anche un certo numero di farabutti. La questione sta per così dire nel “manico” di un sistema politico che, fin dalle origini, non ha saputo, ma soprattutto non ha voluto fornire precisa configurazione giuridica ai partiti. Ogni tentativo in tal senso fu immediatamente frustrato fin dai tempi della Costituente. Dei partiti, la nostra Carta parla all’articolo 49 e ne parla nel modo più vago e  generico che ci sia: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». E poi stop: niente altro stabilisce la Costituzione del 1948 sui partiti. In realtà, dietro quella scarna formulazione si svolse un vero e proprio braccio di ferro tra i costituenti. Alla fine prevalse la linea del Pci, contrario a stabilire in Costituzione il principio della  democrazia interna dei partiti: non per niente eravamo nella stagione più cupa dello stalinismo.

Il problema s’è posto con la legge del 1974, quella che ha introdotto il finanziamento pubblico dei partiti. Si impose allora un rovinoso paradosso: quello di finanziamenti pubblici e regolari a enti, i partiti, privi di personalità giuridica e quindi con meccanismi interni, soprattutto amministrativi, quanto mai opachi. La contraddizione esplose con Tangentopoli, quando emerse clamorosamente il fatto che  l’ingordigia dei partiti di “regime” (come li chiamavamo noi di destra) li portò  a percorre  il doppio bonario  del finanziamento pubblico, da un lato, e di quello occulto e tangentizio, dall’altro. Al dunque, il problema non si risolve ancor oggi con la demagogia a buon mercato e gratificando i malumori populisti. Per stabilire vere garanzie sulla “moralità” nella vita interna dei partiti (senza abbassare gli standard della vita democratica) non c’è altra strada che riprendere il discorso dell’articolo  dell’articolo 49 della Carta, riformulandolo sulla base dell’esperienza acquisita in questi ultimi 60 anni. Per Grillo –sia detto di sfuggita – sarebbe una vera sciagura. Perché sarebbe finalmente costretto (dalla legge) a fornire garanzie serie e certificate sulla democraticità della vita interna del M5S. E su come esso si finanzia.

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