L’anatema di Nanni Moretti: «Compagni, siete i maestri dell’autogol: contro Berlusconi avete sbagliato tutto»
«Ormai il solo fatto di esistere per la sinistra è diventato un autogol». L’analisi spietata e irriverente non viene dal cerchio magico del Cavaliere ma da un lucidissimo Nanni Moretti che, in un lungo dialogo con Marco Damilano contenuto del libro in uscita oggi Chi ha sbagliato più forte, tira le somme del suo “giovanile” impegno girotondino e torna a strapazzare i compagni. Leader e leaderini, moderati e trinariciuti, aristocratici e nazionalpopolari, tutti colpevoli, tutti coinvolti, direbbe Fabrizio De André. Testimone d’eccezione della ventennale guerra civile a sinistra, il regista del Caimano guida il giornalista dell‘Espresso attraverso i sentieri di un sogno rattrappito: dalla Canzone popolare di Ivano Fossati «ai centouno che a volto coperto hanno eliminato Romano Prodi dalla corsa per il Quirinale». Per il Nanni nazionale è l’ultimo imperdonabile errore di una catena di ambizioni personali, rivalità tra capi, logiche di conservazione degli apparati che ha portato a sconfitte disastrose. Orgoglioso dei suoi girotondi romani, Moretti ha una sola nostalgia: la breve stagione del primo governo Prodi nel ’96 («finalmente un ceto politico di cui non vergognarsi»), dopo di lui il diluvio. «Se Rifondazione non avesse fatto cadere quel governo, l’Ulivo avrebbe governato per dieci anni con Prodi e dal 2006 con Veltroni. Se invece si fosse andati a votare subito, l’Ulivo avrebbe vinto da solo, senza Rifondazione…». E invece si scelse la strada del governo D’Alema. È solo uno dei tanti crucci di Moretti, al quale Damilano ha dedicato anni fa un breviario dal titolo “Ecce leader” ripercorrendo la parabola di un nevrotico, geniale, ossessivo nume ingombrante per la sinistra e i suoi i tic, i suoi ritardi, i suoi leader mancati e l’incapacità strutturale di leggere il fenomeno-Berlusconi. «Per fronteggiare l’ex premier, nel ’94, ci sarebbe voluta una risposta straordinaria, anche simbolica, non fu data nemmeno una risposta ordinaria, semplice, piccola…». Ce l’ha con D’Alema, innanzitutto, «lo hanno criticato per delle scemenze, ma i suoi errori sono tutti politici, tutti visibili, tutti mai riconosciuti». Ce l’ha con tutti i vertici del Pd degli ultimi anni, «ci sono stati personalismi senza personalità e tanta confusione». Ma attenzione non è questione generazionale, spiega il più politico dei registi italiani, «alcuni di questi campioni hanno trent’anni altri sessanta , alcuni sono moderati, altri più a sinistra. Non mi interessa. Mi interessa il peso specifico dei 101 che è vicino allo zero». Tutto da rifare? «Ci volevano altri strumenti per contrastare Berlusconi, un altro tipo di persone, un altro modo di fare politica, un’altra solidità, un altro rigore, un’altra integrità». Proprio il più snob della compagnia rimprovera ai compagni il “complesso dei migliori”, per dirla con il sociologo Ricolfi, quella sindrome contagiosa che affligge dirigenti e militanti, che ha chiuso la sinistra in un recinto autoreferenziale e che resta il principale ingrediente dell’elisir di lunga vita dell’odiato Cavaliere.