Letta: “Io e Matteo mai galli nel pollaio”. Infatti assomigliano ai capponi di Renzo

8 Giu 2013 20:39 - di Corrado Vitale

Dopo quello delle crostata,   ora è arrivato anche il  patto del “cinque”.  Enrico Letta e Matteo Renzi hanno posato per i fotografi facendo platealmente il gesto che normalmente fanno gli adolescenti quando si mettono d’accordo su qualche festa o su qualche gita. All’interno del Pd è pace ritrovata. Anzi non c’è mai stata guerra. Dopo due ore di  colloquio nello studio del sindaco a Palazzo Vecchio,  il premier e il suo “rivale” annunciano gaudiosi, persino  ai furbi e agli orbi, che il centrosinistra è solido  e coeso.   L’esecutivo proseguirà  la sua navigazione senza incontrare scogli o mine affioranti sulla superficie del mare. «Questo è un governo –dice  l’inquilino di Palazzo Chigi– che si muove in una situazione eccezionale» e, riferendosi alla situazione generale dell’Italia, aggiunge che il Paese «ha bisogno di uscire  dallo stallo con riforme economiche e istituzionali».

Partecipando più tardi al forum di Repubblica,  il premier afferma inoltre che «Berlusconi non detta la linea del governo» e che alla fine «il nostro sistema regge». Insomma, secondo Letta, il vero architrave dell’esecutivo è il Pd grazie al  ritrovato accordo tra lui e il sindaco di Firenze.

Comprensibile il tentativo del premier di gettare acqua sul fuoco, ma è credibile, Letta, quando accredita l’idea di aver disinnescato la “mina”  Renzi? Che, in realtà, quella tra lui e il sindaco sia una “pace armata”, una “pace”  che potrebbe in prospettiva insidiare  pericolosamente la stabilità dell’esecutivo, è cosa che non sfugge a quella vecchia volpe di Osvaldo Napol.  Così l’esponente del Pdl commenta l’ostentato ottimismo lettiano: «Se il governo fibrilla dipende dal Pd». Perché, quanto a Berlusconi, e a proposito della sua recente  esortazione a Letta di farsi  valere con la Merkel, si tratta in realtà di una «difesa dell’esecutivo».

La paura sottotraccia dei dirigenti del Pd e di quella parte di opinione pubblica che lo sostiene è che, mutatis mutandis, si riproduca oggi, tra Letta e Renzi, lo stesso  dualismo  tra capo del governo da un parte  e leader politico dall’altra (ammesso, naturalmente, che Renzi conquisti  effettivamente la leadership del Pd) che si rivelò devastante al tempo del secondo governo Prodi (all’epoca il “destabilizzatore” politico era Veltroni).

Il patto del “cinque” potrebbe essere insomma poco più di un precario paravento. Con buona pace di chi pensa che i dirigenti della sinistra italiana siano immuni dal vizio del personalismo.

Dopo l’incontro con il sindaco, Letta ha scherzato con i giornalisti affermando che «dall’incontro di oggi sono uscito praticamente in mutande perché Renzi mi ha chiesto soldi per Firenze, 20 miliani per gli Uffizi».  E poi ha aggiunto: «Io e Renzi mai galli nel pollaio».

In realtà nessuno li aveva scambiati per galli, ma per i capponi di Renzo di manzoniana memoria.

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