Panebianco sbaglia, alla destra non serve un Renzi ma una nuova sintesi culturale

25 Mar 2013 12:04 - di Silvano Moffa

Caro direttore, hai ragione da vendere. Fin qui si è parlato molto di Grillo e dell’impetuosa crescita del Movimento 5 stelle e poco o niente della sconfitta del Pdl. Certo, visto come sono andate le elezioni, con un Pd azzoppato e non in grado di sfruttare quel vento a favore che fino a pochi mesi sembrava gonfiare le vele di Bersani, con i grillini sempre più animati da furia distruttrice e con un centro montiano asfittico, si può pure tirare un sospiro di sollievo. Poteva andar peggio. Berlusconi, come suol dirsi,  ha messo una pezza. E quel che sembrava una annunciata catastrofe per il centrodestra si è tramutata in una sconfitta. Sicchè fa più notizia l’esiguo margine di vantaggio del Pd sul Pdl che non la perdita secca di 7 milioni di voti da parte di quest’ultimo. E visto che l’impasse per la formazione del governo regna sovrana, legittimamente  si gioca la carta del ruolo “determinante” per un esecutivo che voglia reggere alla sua congenita fragilità numerica. Ma basta tutto questo (ammesso che il gioco valga la candela) per rinviare ancora una volta una riflessione attenta sui flussi elettorali e sulla crisi che ha investito i partiti tradizionali (al di là dello stesso dato elettorale), fino ad intaccare le istituzioni? È pensabile che, di fronte ad una crisi economica e sociale così profonda, con centinaia di negozi che chiudono ogni giorno, le fabbriche che continuano a sfornare cassintegrati, famiglie impoverite, duecentomila laureati in cerca di lavoro, un  ceto medio tartassato dalla imposte, scoraggiato, impaurito si possa trovare la quadra con formule che sanno tanto di vecchio e di stantio?

Se fossimo un Paese normale, nella situazione data avremmo già trovato il bandolo della matassa. E siccome dalle urne non è uscito un vincitore “pieno”, avremmo già fatto tesoro del suggerimento del Capo dello Stato, dando vita ad un governo di responsabilità nazionale, aperto alle forze che in Parlamento fossero in grado di trovare una intesa su quattro, cinque provvedimenti di cui si avverte l’urgenza (interventi in campo economico per rilanciare lo sviluppo, riforma elettorale e riforma costituzionale per superare il bicameralismo e diminuire il numero dei parlamentari, ridefinizione dei poteri locali) per poi tornare al voto.

Sul come tornare al voto, con quale profilo e con quale obiettivo, dovremmo appunto incentrare la nostra riflessione. Angelo Panebianco sul Corriere auspica il ritorno a quello che una volta si sarebbe definito un solido “governo borghese” e sogna un Renzi di destra, che non piaccia alla sinistra e che incarni alcuni valori e rappresenti idee e interessi autenticamente liberali; che difenda il valore dell’individualismo come fonte di libertà, che consideri la proprietà privata come un diritto fondamentale e i mercati “e non i Savonarola” i costruttori di società decenti.

Insomma, per Panebianco “il governo borghese che serve al Paese è un governo teso a rilanciare lo sviluppo capitalistico senza se e senza ma”. Fin qui nulla da obiettare. A parte la considerazione non proprio secondaria che dovremo capire quale modello di capitalismo uscirà dalla crisi. La vera questione, sulla quale avevamo invitato il Pdl a riflettere nell’ultima fase della precedente legislatura (quella contrassegnata dal governo tecnico) riguarda la configurazione competitiva del nostro sistema produttivo, gli ambiti nei quali il Paese può tornare de essere protagonista sui mercati grazie ad eccellenze ed asset che non  temono la concorrenza. Questo implica la piena consapevolezza della propria forza e una più spinta accelerazione nel managment aziendale e nella innovazione, come fattori determinanti della crescita e della ripresa.

Un capitalismo più partecipativo, che ricalchi i modelli sperimentati con successo nel mondo anglosassone, potrebbe rappresentare la nuova frontiera di un Progetto Italia, capace di portarci fuori dalle secche.

Comunque, se questo è prioritario, la leadership, per quanto importante ed essenziale nella civilità della comunicazione e del web, non risoverebbe di per sé i problemi della destra. Anzi rischierebbe, per certi versi, di ingolfarla in quella “personalizzazione” della politica, il cui eccesso ha sin qui scompaginato e rarefatto il “senso” stesso della Politica, accentuando la crisi dei partiti.

E se il partito politico, per dirla con Marco Revelli, recita il suo “finale”, per effetto di una mutazione che è parallela al superamento della produzione “fordista” massificata e all’affermarsi di nuove forme organizzative leggere, è ancor più urgente misurarsi con questa nuova dimensione della sua organizzazione. Che vale, ovviamente, anche e soprattutto nel riflesso sulla stessa vita democratica. Ed implica un ripensamento delle forme di rappresentanza oltre che di selezione delle classi dirigenti. Pensare di perpetuare un sistema che fin qui ha portato al degrato del Parlamento, alla caduta di fiducia da parte dei cittadini( l’astensionismo ha raggiunto livelli preoccupanti), alla stessa macanza di senso etico e di rispetto istituzionale, inseguendo istanze populiste rischia di allontanare la pur evocata ricomposizione di quel ceto “borghese” . È troppo chiedere di lavorare lungo l’asse di una nuova solida sintesi culturale che renda unitario, profondo e incisivo ( e non episodico e disarticolato) il pensiero della destra?

 

 

 

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