I risultati ottenuti dal tecno-premier? Non si vedono, è roba da psicologi

1 Ott 2012 20:09 - di

Aprite un buon libro di psicologia e scoprirete che Monti è il nuovo Freud, sa leggere nell’inconscio, entrare nella parte nascosta di ogni individuo, lavorare sugli stati d’animo. Perché – a detta dei suoi fedelissimi – ha rasserenato uomini e donne da una parte all’altra degli oceani, passando dalle antiche tradizioni europee ai grattacieli degli States. Cosa può e deve fare la politica di fronte a cotanto sapere? Imitarlo e seguirne le gesta. Dai ministri (Passera in primis) ai terzopolisti il coro è pressoché unanime: «La politica deve capitalizzare i risultati ottenuti da Monti». Vai a capire poi quali siano, questi risultati. Secondo il fan club del premier, lui ha «ridato fiducia» ai mercati e ha «tranquillizzato» i referenti esteri, i leader duri alla Merkel e gli investitori stranieri (che però continuano a non vedersi). Tutto sul piano spirituale. Di risultati concreti, però, non se ne vedono all’orizzonte. Quelli sul piano psicologico sì, ma solo all’estero. E il fido Passera continua a parlare con il tono del buon padre di famiglia, quello che mette la mano sulla testa ai figlioli un po’ discoli raccomandando loro che «l’importante per i prossimi mesi è parlare dell’Italia che vogliamo». Sarà un caso, il ministro montiano ha scelto proprio lo slogan dei comitati creati dagli ulivisti per Prodi. Un incidente di percorso. Monti, invece, è tornato a parlare puntando sempre sui “risultati psicologici”: «Quando lasceremo ad altri nei prossimi mesi il governo del Paese, spero che lasceremo un Paese un po’ più rasserenato e un po’ meno rassegnato». Rieccolo: «Più rasserenato e meno rassegnato», dopo la sua cura sul lettino dello psicologo. Anche perché l’altra cura – quella dell’azione di Palazzo Chigi – ha lasciato parecchie vittime sul campo, dal ceto medio agli operai, dagli impiegati ai liberi professionisti alle imprese piccole e medie che hanno chiuso a migliaia lasciando sul terreno un milione di posti di lavoro. E per loro non bastano né Monti né Freud.

Disoccupati boom
Di tutta la camomilla non c’è traccia in Italia, dove la gente è allarmata per le ricadute dell’Imu, del caro-carburanti, delle addizionali e del calo dei consumi che generano recessione economica e disoccupazione. Un disastro che è sotto gli occhi di tutti. Piovono cifre e sono sempre negative. Ad agosto in Italia siamo arrivati ad avere una disoccupazione media del 10,7 per cento (ma per i giovani siamo al 34,5), che  rappresenta il valore più alto da gennaio del 2004. Rispetto allo stesso mese del 2011 l’incremento è stato di 2,3 punti percentuali, mentre gli occupati sono diminuiti di 80mila unità. Solo poco più di una donna su due (il 56,9 per cento) riesce a trovare lavoro e le prospettive continuano a essere nere, dopo che anche il governo è stato costretto a rivedere le stime sulla diminuzione del Pil nel corso del 2012, che è passata dell’1,2 al 2,4 per cento. Un vero e proprio crollo, frutto della caduta dei consumi conseguente alla diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie di lavoratori e pensionati. In flessione soprattutto l’acquisto di beni durevoli segno che, dovendo stringere la cinghia, la gente preferisce rimandare gli acquisti di mobili, elettrodomestici e altro concentrando le risorse per garantirsi il pranzo e la cena (ma recentemente anche i prodotti alimentari hanno segnato il passo), mandare i bambini a scuola e fare fronte alle bollette di gas ed elettricità  che sono diventate sempre più salate.

La “truffa precari”

Vi ricordate il gran parlare del problema dei precari a margine della trattativa per la riforma del mercato del lavoro? Poco c’è mancato che i sindacati da una parte e la Fornero dall’altra arrivassero ad accusare Berlusconi per il dilagare del fenomeno del precariato. I precari, si disse, erano troppi e mal pagati, mentre Berlusconi aveva garantito forme di detassazione degli strardinari, cioè del lavoro in più svolto da chi già possedeva un’occupazione a tempo indeterminato. Il ministro del Welfare e la Cgil, invece, ci hanno spiegato che il modo per per scoraggiare il precariato era quello di far costare i precari più di quanto costa un lavoratore a contratto pieno, in modo che l’imprenditore venisse “invogliato” a trasformare il contratto a tempo determinato in contratto a tempo pieno. Invece, alla prova pratica, sembra che non sia così. L’aumento dei costi invece di portare al cambio di contratto spesso ha portato al licenziamento del lavoratore precario. Ma almeno, si dirà, le retribuzioni per quelli che sono rimasti sono aumentate? Non, non lo sono. Anzi, il divario risulta in crescita.

Salari “leggeri”
Avere un posto di lavoro precario va di pari passo col percepire un salario più leggero, oggi anche del 28 per cento rispetto al tempo pieno (l’anno scorso era il 27,2 per cento). L’Isfol certifica questa situazione e fa sapere che un lavoratore a tempo determinato in media non supera i 1.000 euro al mese di stipendio netto. Il problema, però non è soltanto questo. C’è anche la scarsa dinamicità della busta paga di chi non ha un posto fisso. Il lavoratore a tempo determinato, infatti, indipendentemente dall’età, rimane sempre al di sotto dei mille euro al mese (il 50 per cento degli occupati a termine ha meno di 35 anni, ma almeno un milione di essi  è sopra questa soglia di età). E gli altri? Usufruiscono di un ventaglio abbastanza ampio che, secondo l’Isfol, va dai 900 euro per la fascia d’età 15-24 anni ai 1.500 della classe 55-64 anni. Tra l’altro bisogna considerare che i precari sono penalizzati anche dal fatto che il 25,5 per cento ha un contratto a part time, mentre tra i lavoratori a tempo pieno la percentuale  non supera il quindici. È davvero il caso di dire che per i precari la campana della crisi suona tre volte: una prima perché non hanno un lavoro in grado di garantire loro una vita dignitosa ma vivono con l’incubo della scadenza del contratto, una seconda perché guadagnano di meno, una terza perché spesso sono occupati a tempo parziale, non fanno straordinari e non godono dell’applicazione delle fasce di anzianità previste dai contratti collettivi di lavoro.

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