Birmania, l’altra faccia: perseguitare i Rohingya
Gli scontri religiosi nell’ovest della Birmania, nello Stato Rakhine al confine con il Bangladesh, tra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana dei Rohingya hanno causato, solo nell’ultimo periodo, più di cento morti. Il “Signor Pulito”, così viene chiamato dai media occidentali Thein Sein, il nuovo presidente birmano, ha dichiarato che questo clima mette in pericolo la reputazione del Paese agli occhi della comunità internazionale e ha avvertito che “la polizia e le autorità riporteranno presto la pace e prenderanno provvedimenti contro i singoli e le organizzazioni che fomentano gli scontri”.
La nuova ondata di violenza contro i musulmani Rohingya era iniziata il 28 maggio nel villaggio di Maungdaw dopo lo stupro e l’uccisione di una donna locale di religione buddista. In seguito a questo episodio il 3 giugno, a Toungup, diverse centinaia di persone avevano attaccato un autobus di musulmani diretto a Yangon con un bilancio tragico: undici morti. Dal 10 giugno scorso gli scontri tra le due comunità sono aumentati tanto da far entrare in vigore lo stato di emergenza e il coprifuoco dal tramonto all’alba. In una intervista rilasciata ad “Asia news” Aye Chan Naing, direttore del sito dissidente “Democratic voice of Burma”, aveva dichiarato che “i fatti di cronaca che arrivano mostrano davvero quanto sia fragile il processo di cambiamento in Birmania. Questo non è un dramma esploso per caso. Vi sono diversi segnali che indicano che, dietro a questa drammatica vicenda (gli scontri e le persecuzioni, ndr), vi siano gruppi filogovernativi e vicini ai militari, insieme a movimenti estremisti interni”. Win Myaing, portavoce dello Stato Rakhine, ha sottolineato che dall’inizio della nuova ondata di violenza del 21 ottobre “sono morte 112 persone e circa 2mila case sono state bruciate”.
I Rohingya sono la popolazione che nessuno vuole e vengono considerati dalle Nazioni Unite come una delle etnie più perseguitate al mondo. Circa 800mila Rohingya vivono nella povertà più assoluta in Birmania dove non sono riconosciuti come etnia anche se hanno discendenze persiane, turche e bengalesi, ed emigrarono in Birmania a partire dal VIII° secolo. Il vicino Bangladesh, che ospita altri 300mila Rohingya, ha attivato le guardie di frontiera sulla costa per la paura di nuovi sbarchi di profughi. Recentemente il governo di Dhaka aveva ordinato alle tre maggiori organizzazioni umanitarie attive – Medici Senza Frontiere, Action Against Hunger e Muslim Aid Uk – di cessare il proprio aiuto verso i Rohingya in arrivo.
Ali Akbar Salehi, il ministro degli Esteri iraniano che ha programmato una visita in Birmania nei prossimi mesi per aprire un canale diplomatico con Naypyidaw, ha dichiarato che “il perdurare delle atrocità è una fonte di rammarico, ma ancor più deplorevole è il silenzio degli organismi internazionali e dei diritti umani che non mostrano alcuna reazione a questi crimini”. La storia dei Rohingya, insieme ai continui attacchi all’etnia Kachin e al continuo rifornimento di armi e munizioni nelle postazioni che si trovano nello Stato controllato dall’etnia Karen, è l’altra faccia del governo birmano, quella che non viene raccontata dai media occidentali che sono più interessati alle presunte riforme economico-democratiche e all’entrata in parlamento del Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.