Piccioni: «Caro ministro, la scuola non è business»
Continuare a credere nella scuola, nonostante tutto. Lezione difficile da imparare, a memoria, con la consapevolezza che molto, se non tutto, parte da lì. “Il Rosso e il Blu”, film del regista Giuseppe Piccioni, prova a raccontare la nostra scuola senza lenti politiche, in maniera a tratti cruda ma molto umana, perché mai dobbiamo dimenticare che la scuola è il luogo dove “nascono” gli adulti di domani. Una scuola da non bocciare, dunque, dove gli errori vanno segnati con la matita blu; la matita rossa, quella per gli errori gravi, è tutta per la politica che dimentica il suo ruolo formativo.
Protagonisti principali del film sono un giovane supplente (Scamarcio), coraggioso e innamorato della sua missione e il “vecchio” professore disilluso (Herlitzka), intellettuale sui generis. Due mondi antichi che “salvano” la scuola da una modernità che spesso dimentica la bellezza della cultura.
Piccioni, perché fare un film sulla scuola?
Da quando mi hanno rivolto questa domanda per la prima volta, ho cominciato a guardare con incubo ai prossimi giorni perché mi aspetto che tutti me la rivolgano. In genere però le cose vanno un po’ diversamente, non è che quando uno fa un film ha una lucida consapevolezza delle motivazioni: la mia intenzione era di fare un film sulla scuola perché mi sembrava interessante quel mondo dal punto di vista di quanto sia decisiva nella vita di tutti. Non volevo fare un pamphlet di denuncia che raccontasse i disagi di una scuola impoverita nelle necessità, che ho lasciato sullo sfondo; volevo raccontare questo nucleo fondamentale, il rapporto tra i ragazzi e gli adulti, mi è sembrato che fosse una mancanza non averlo fatto prima. Poi, mi piaceva l’approccio di Marco Lodoli, autore del libro da cui è tratto il film, il suo non ammiccare all’attualità e alla retorica.
Con questo film lei voleva raccontare “la speranza in modo leggero”. Perché, abbiamo perso anche la speranza?
La sensazione che ho è che ci sia un muro davanti a noi. Quello che accade in questi giorni, la prospettiva di questa crisi economica, le generazioni che si susseguono con un orizzonte sempre più ridotto…è come se mancasse l’indicazione di una prospettiva. Anche gli intellettuali, che hanno per statuto il compito di cercare di aprire una strada, sono diventati degli opinionisti che danno dei giudizi sull’esistente senza accompagnare al giudizio la capacità di formare. Si tende a riconoscersi nei mail della società, in ciò che non funziona. Anche la politica ha perso la voglia di lasciare il segno. Chi è preposto a operare delle scelte non può limitarsi ad amministrare, ma deve preoccuparsi, appunto, di lasciare coraggiosamente un segno, una prospettiva positiva.
Il ministro Profumo ha detto che la scuola deve diventare sempre più “hub di servizi”…
Mi piacerebbe che Profumo chiarisse meglio il concetto, ma la premessa contiene il vizio di fondo del dibattito che anima da parecchi anni le questioni che riguardano la scuola: c’è una visione pragmatica che non si sposa con quello che io racconto, con la vera necessità della scuola. Manca il riferimento alla nostra cultura che credo sia la benzina fondamentale per poter essere anche degli ottimi manager del futuro. Una qualità che è anche morale. È una visione molto economicistica della scuola, ma l’impoverimento dovrebbe costringere a scelte etiche che dovrebbero puntare sulla qualità della formazione, delle scelte.
Notizia di questi giorni è che aumentano gli iscritti agli istituti tecnici a scapito dei licei. Ovviamente parliamo di ragazzi provenienti da famiglie poco abbienti. È il ritorno a un’Italia anni ’50 dove anche studiare diventa un lusso?
Sì, è il segno di una difficoltà a garantire a tutti una giusta ascesa sociale. Conosco bene quest’Italia perché provengo da una famiglia umile, ma la mia era un’Italia che sognava che con lo studio ci si potesse migliorare. E i sacrifici dei genitori erano fatti volentieri. Adesso credo ci sia un ritorno di una scuola di classe. Mi spaventa che le famiglie meno abbienti non possano permettersi il lusso di parlare di Leopardi o della Divina Commedia.
Poi, ovviamente, le scuole tecniche sono scuole dignitosissime, ma separare le classi sociali è segno dell’incapacità di sognare un futuro diverso per molti nostri figli. Il Paese è realmente bloccato e solo con la scuola si può sbloccare.
I due professori – il giovane supplente interpretato da Scamarcio e il vecchio professore interpretato da Herlitzka – sono la scuola che mette al centro l’uomo e il sapere. Insieme sono il mix di una scuola gentiliana che forma uomini e pensieri e che forse oggi manca?
Mi aspettavo questa domanda (ride, ndr). La risposta è no. Ma dico no perché non arrivo a tanto, la scuola che racconto potrebbe essere anche la scuola di Don Milani. L’importante, questo sì, è che ritorni l’essere umano e la formazione dell’essere umano al centro. Però vado a rivedere volentieri qualcosa su Gentile.
Guardando il film vorrei che si recuperasse positività e, ricordando com’era la nostra scuola, si recuperasse l’interesse verso il sapere come stimolo verso il futuro. In fondo, quello che dico è: se tu occupi un posto che ha a che fare con la formazione dell’essere umano, come può essere quello del direttore di un telegiornale o di un giornale o di una tv, hai l’obbligo, il dovere e anche il piacere di lasciare un segno. Positivo e coraggioso.
Se fosse ministro dell’Istruzione quale sarebbe il primo provvedimento del suo dicastero? Magari immaginare un Ipad per i professori del Sud come ha detto Profumo?
No, sicuramente non sarebbe l’Ipad la mia preoccupazione principale. Cercherei di restituire ai professori, ai presidi, la consapevolezza del loro ruolo. Quello che provo a fare con il mio film, che punta sulla concretezza delle persone. Infatti, nessuno di loro è un manifesto politico.