Ministri e Cgil non sanno neppure copiare
Alle porte c’è l’autunno, che – oltre ad essere caldissimo sul fronte delle proteste – si preannuncia carico di slogan e scopiazzature. Le premesse ci sono tutte. Monti ha lanciato un oggetto misterioso, il “cronoprogramma”; la Fornero ha parlato di «partecipazione dei lavoratori» alla vita delle imprese; la Camusso ha ipotizzato la detassazione delle tredicesime. Un bombardamento di ipotesi, che travolgono l’opinione pubblica, già stordita dagli schiaffi delle bollette e della benzina. Ognuno degli attori protagonisti in campo dice che «si può fare». Tranne poi non dire la cosa principale, «come» fare. Perché si sa, quando si copia – come accade nei compiti a scuola – nella fretta manca sempre il finale e ci si becca un bel “quattro”. Sul “cronoprogramma” di Monti pesano incognite pesanti; sulla detassazione delle tredicesime la Camusso ruba l’idea che ebbe Berlusconi nel 2008 ma oggi le condizioni sono diverse; sulla partecipazione dei lavoratori la Fornero si aggrappa a una tesi da sempre cara alla destra, ma la pone in modo raffazzonato, con riferimenti a modelli altrui e con scarsa dimistichezza dell’argomento. Il tutto avviene nella consapevolezza che nelle casse dei ministeri non c’è nemmeno un euro e quindi il dibattito sa di beffa.
Le tredicesime e la Camusso
Ma andiamo con ordine. Preparando l’incontro con il governo Susanna Camusso, leader della Cgil, ha dato dell’incapace alla Fornero («parla di lavoro senza sapere cos’è») buttando sul tavolo un’operazione che potrebbe rivelarsi costosissima: la detassazione delle tredicesime. Una proposta non nuova. Già a fine ottobre 2008 il governo Berlusconi stava lavorando a un piano del genere – tacciato dalla sinistra di essere un venditore di fumo – ma con in mente ben chiara la necessità di dare fiato ai consumi. Allora, però, la situazione era molto diversa rispetto all’attuale. Qualche spicciolo nei cassetti c’era ancora, non eravamo in recessione e, soprattutto, la pressione fiscale non era al 45 per cento e oltre. Così Berlusconi cercava la maniera di dare una risposta forte alle associazioni dei commercianti che lamentavano la stasi dei consumi. Oggi, invece, dopo che perfino la parziale detassazione del salario di produttività è stata abolita, il discorso non si pone. Perché non avrebbe le ricadute sperate. Le cose da fare, infatti, vanno calate in un contesto che le giustifichi.
Idee del centrodestra
Copiare le altrui idee può rivelarsi un boomerang. Maurizio Castro, senatore del Pdl e vicepresidente della commissione Lavoro di Palazzo Madama, non ha dubbi: è evidente che il lavoro deve essere detassato «ma occorre capire su quale voce agire per azionare le leve in grado di produrre dinamiche virtuose in termini di occupazione e produttività». E il taglio della tasse sulle tredicesime cosa produrrebbe? Non certo tutto questo. «I pochi soldi che i lavoratori si troverebbero in più in busta paga – sostiene Castro – non andrebbero ai consumi ma, considerando l’attuale situazione, verrebbero risparmiati per fare fronte alle necessità future». Inoltre l’operazione «sarebbe costosissima», mentre la detassazione del salario di produttività costerebbe molto meno e sarebbe «un’operazione decentrata in grado di favorire la virtuosità dei processi aziendali, perché lascerebbe spazio alla contrattazione periferica o territoriale che sia». Ma allora perché la Camusso pone questo problema sul tavolo della trattativa con il governo? Semplicemente perché si tratta di un argomento che ideologicamente piace alla Cgil: un’ottica centralista che lavoratori e imprese non apprezzano ma il sindacalismo classista ha sempre considerato argomento privilegiato, alla faccia della competitività delle imprese che, come stabilivano il Protocollo Amato del 31 luglio 1992 e il Procollo Ciampi del 23 luglio 1993, doveva costituire l’obiettivo futuro di «qualunque intervento fiscale sul lavoro», che sarebbe dovuto «essere indirizzato a un incremento della produttività».
La democrazia d’impresa
Sul fronte dei tagli alle tasse sul lavoro, le premesse non lasciano sperare nulla di buono: irrisorie sono le risorse disponibili e troppo diverse le esigenze dei partecipanti al tavolo a cui il governo sta per dare il via. La Fornero, però, ha dichiarato che si sta cercando di legare questo processo fantasma di riduzione del cuneo fiscale alla democrazia d’impresa, cioè a forme di partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale sul modello tedesco. «Sperimentazioni virtuose – come le chiama il ministro del Lavoro – per aumentare la produttività». Ma anche qui il governo rischia di partire con il piede sbagliato. Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, ha già mandato a dire a Monti e ai suoi che «le imprese sono contrarie a ogni imposizione per legge di forme di cogestione o codecisione». Il che non vuol dire che l’argomento debba essere relegato in soffitta, sic et simpliciter. Il governo deve semplicemente rinunciare alla sua abitudine di imporre le cose dall’alto, di abbandonare gli slogan e di puntare al concreto. Spiega lo stesso Maurizio Castro (insieme a Tiziano Treu relatore sulla riforma del lavoro) che l’uovo di Colombo sta nel fare in modo che il modello partecipativo sia «volontario» lasciando da parte suggestivi esempi che ci arrivano dall’estero. Si deve applicare, cioè, solo alle imprese e ai lavoratori che decidono di farlo proprio e non a tutte per volontà divina. Non a caso, sottolinea Castro, la soluzione che abbiamo deciso di sponsorizzare prevede un modello a menù: niente imposizioni, ma nove diversi sistemi partecipativi in modo da dare a imprese e lavoratori la possibilità di scegliere quello che più si addice alle loro caratteristiche e priorità. Potrà funzionare? È probabile, a patto che la Cgil e il Pd lascino da parte molti preconcetti ideologici. L’Europa, del resto, ci spiega che in futuro dovremo essere in grado di far acquisire maggiore potere al contratto aziendale, sostituendo quello nazionale e decentrando le decisioni dal centro alla periferia.