Sangue chiama sangue: il caso di Alfa Giubelli

23 Feb 2012 19:50 - di

Qual è il discrimine tra sete di giustizia e fame di vendetta? Forse un giorno solo gli psicologi, i giuristi, e i sociologi più illuminati sapranno trovare una risposta soddisfacente al quesito. Il mago Merlino del bellissimo film di John Boorman, Excalibur, dice che «la maledizione degli uomini è che essi dimenticano». Ma l’odio è un sentimento che non conosce amnesie. Il filosofo di Konigsberg, Kant, dal canto suo, parlando di emozioni e passioni, sostenne che «le une sono come l’acqua che rompe una diga e le altre come un torrente che si approfondisce nel suo letto». Un modo come un altro per ammonire che entrambi i moti dell’anima, quando si scatenano, non c’è “cristo” che possa fermarli: sangue chiama sangue. E a volte il rancore, apparentemente sopito, cova silente sotto la cenere come un vulcano addormentato, per poi esplodere magari dopo generazioni.
È il caso di Alfa Giubelli, vittima dell’odio comunista. Il 15 luglio 1944 – dunque in piena guerra civile – due uomini armati bussano alla casa di Margherita Ricciotti coniugata Giubelli. Ordinano che la donna li accompagni «al comando». I due sono partigiani della formazione di Aurelio Bussi, nome di battaglia “Palmo”. Si tratta di uno spietato stalinista e Margherita, il marito lontano, a combattere sul fronte, ha la sfortuna di appartenere a un clan familiare noto per il suo anticomunismo. Ha accanto a sé la figlia Alfa di dieci anni: una bambina molto attaccata alla madre. La piccola è spaventata dall’atteggiamento arrogante di quei due, certo Ardissone e certo Balosetti, che le fanno fretta. “Palmo” li aveva avvertiti. «È una spia. Tutti i Ricciotti sono spie. E le spie fasciste devono essere eliminate. Tutte. È l’ordine arrivato dal comando di Francesco Moranino detto “Gemisto”».
Ma la situazione si complica. Margherita intende portare con sé la figlioletta – «Se mi dovete solo interrogare… E poi non so a chi lasciarla» – ma invece che al comando si dirigono tutti verso il cimitero, dove, insieme ad altri partigiani, “Palmo” è in trepida attesa. Non ci sarà nessun interrogatorio per la povera signora Giubelli. Solo una lapidaria sentenza di morte: «Questa è la tua ultima ora, cara Margherita. Voi altri Ricciotti siete sempre stati la mia rovina, mi avete sempre fatto correre, siete una manica di fascisti e di delinquenti». Una sventagliata di mitra e via, mentre Alfa fugge terrorizzata per i campi. Poi una voce che esclama: «E adesso che ne facciamo di questa?». E un’altra che risponde: «Beh, è una testimone…». Ma per fortuna lo sciagurato viene subito zittito: «T’ses fol (sei matto)?». La bambina è salva per miracolo. Il 15 giugno 1953 il procuratore della Repubblica di Vercelli, Lombardi, stabilisce che Aurelio Bussi non ha commesso reato – s’è trattato di «un’azione di guerra» – e il giudice istruttore Rosco archivia la pratica. Ma Alfa, come altre valorose testimoni di quei giorni infami, quella pratica non l’archivierà mai. Quello della signora Giubelli non è stato certo di un caso isolato. Nell’Italia degli anni della guerra civile, quella scoppiata tra il 1943 e il 1945 e trascinatasi per tutto il decennio successivo, il sangue è scorso a fiumi. All’epoca, nella sola provincia di Modena, e precisamente tra Castelfranco Emilia, Mirandola e Carpi, area geografica rimasta “famosa” col nome di “Triangolo della morte”, gli omicidi politici furono migliaia. La cifra si basa sulle stime diffuse dall’allora prefetto di Modena Giovanni Battista Laura e da quelle fornite dai Carabinieri.
I responsabili di questi delitti politici furono nella stragrande maggioranza dei casi ex-partigiani iscritti o simpatizzanti del Pci adusi agli agguati e alle imboscate. Naturalmente, secondo gli “eroici” autori di questo scempio, le vittime erano null’altro che “spietati” fascisti. Ma in realtà, ad essere colpiti alla schiena furono poveri diavoli eliminati – a guerra ormai terminata – in quanto considerati “nemici di classe” o semplicemente un ostacolo a un’auspicata rivoluzione comunista. Si trattava di preti, latifondisti, partigiani “bianchi” e semplici possidenti. A volte erano banali regolamenti di conti per questioni del tutto personali fatti passare per episodi di giustizia proletaria.
Alfa intanto vuole vivere. Si sposa, a quindici anni, con un bravissimo ragazzo, Rino Basadonna, ex marò della Decima Mas, che non l’abbandonerà mai più. Ma lei è sempre malinconica, strana. La sua è una ferita mai sanata. Il volto dell’assassino è scolpito a caratteri indelebili nell’animo della ragazza, che non riesce a cancellare dalla mente quel drammatico ricordo. Il 7 marzo 1956 la donna decide di agire: prende la pistola del marito, la infila in una borsa da viaggio ed esce di casa. Con la corriera raggiunge il paese natale, cerca Aurelio Bussi, nel frattempo divenuto sindaco e medaglia d’oro – l’Italia della resistenza una poltrona e una medaglia non le nega a nessuno – riesce a rintracciarlo mentre è a tavola nella casa di Rina Petrolini, la sua compagna. Una volta al suo cospetto pronuncia solo poche parole – «sono Alfa Giubelli, la figlia di Margherita Ricciotti» e gli scarica addosso cinque colpi di pistola, uccidendolo. Un breve tragitto alla caserma dei carabinieri, per consegnarsi. Quindi il carcere, il processo, la condanna a cinque anni e tre mesi di reclusione, con il riconoscimento del vizio parziale di mente. Alfa Giubelli avrà anche due bambine. Un personaggio da tragedia greca, Alfa. Una novella Antigone.

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