È datata 1862 la prima strage dei “picciotti”
Da un secolo e mezzo mafia e antimafia si contrappongono in una lotta che ha fatto migliaia di vittime e che può essere considerata emblematica di una ultrasecolare contrapposizione fra Stato e antistato. La prima strage attribuita a un’organizzazione in tutto simile alla mafia risale al 1862, quando in una notte d’autunno nei vicoli di Palermo vennero massacrate a colpi di pugnale ben tredici persone, fra commercianti, cocchieri, impiegati, soldati e barcaioli. A quello stesso anno risale anche il primo caso di collaborazione con la giustizia: uno dei pugnalatori, infatti, una volta catturato dalle guardie, ammise i propri crimini e riempì con dichiarazioni accusatorie fiumi di verbali, consentendo così l’arresto dei complici che avevano preso parte a questa efferata strage. Per evitare rappresaglie o per difendere un male interpretato senso dell’onore, i parenti di questo pentito ante litteram dichiararono che il proprio congiunto era improvvisamente impazzito e si era inventato tutto: una reazione, questa, straordinariamente analoga al comportamento tenuto in tempi ben più recenti da diversi parenti di attuali collaboratori di giustizia.
Questa e tante altre storie sono raccontate nel saggio del giornalista Leone Zingales, intitolato 150 anni di mafia e antimafia (Torri del vento edizioni), pubblicato nel ventennale delle stragi mafiose che insanguinarono il capoluogo siciliano, inaugurando, nel 1992, la stagione delle auto-bombe targate Totò Riina e soci.
Sempre nella seconda metà del diciannovesimo secolo si incomincia a utilizzare il termine mafia, mentre oltreoceano, a fine Ottocento faceva la sua comparsa la cosiddetta “Mano nera”, associazione criminale nata da malavitosi italiani trapiantati nei quartieri newyorchesi di Brooklyn e Manhattan. E dagli Stati Uniti proveniva anche l’italo-americano Joe Petrosino, detective nato a Salerno e divenuto popolare quale cacciatore di gangster a New York, che ebbe la sfortunata idea di tornare in Italia per scoprire gli illeciti accordi fra le “famiglie” siciliane e americane, ma che la sera del 12 marzo del 1909 venne ammazzato in una centralissima piazza palermitana.
Fra gli episodi curiosi citati nel libro ci sono poi i summit organizzati dai clan mafiosi siciliani e statunitensi fra il 1956 e il 1957 rispettivamente in due grandi alberghi di New York e di Palermo: più che riunioni segrete si trattò di vere e proprie convention del crimine, con centinaia di partecipanti che suggellarono, fra pranzi e fiumi di alcolici, l’alleanza fra i padrini italo-americani e i boss della mafia siciliana. Fra i presenti a questi incontri, anche nomi celebri del crimine quali Joe Bonanno e Lucky Luciano.
Che la mafia non abbia mai avuto paura degli investigatori e dei magistrati, poi, è provato dai tanti onesti servitori dello Stato caduti sotto il piombo di Cosa nostra. Fra questi, il procuratore Pietro Scaglione, il colonnello dei carabinieri Ninni Russo, il dirigente della squadra mobile Boris Giuliano, il giudice istruttore Cesare Terranova, il procuratore capo Gaetano Costa, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il magistrato Gian Giacomo Ciccio Montalto, il maresciallo Vito Ievolella, il vicequestore Ninni Cassarà, il giudice Rosario Livatino, il giudice Rocco Chinnici e molti altri che avevano osato contrastare il potere mafioso in anni in cui l’indignazione popolare e i provvedimenti di legge non avevano ancora abbattuto quella zona grigia di inenarrabili alleanze fra gli assassini di Cosa nostra e i colletti bianchi del potere politico-imprenditoriale siciliano.
In questi 150 anni, poi, la mafia ha cambiato spesso i propri campi d’interesse, andando dal contrabbando di sigarette allo sfruttamento della prostituzione, dal racket delle estorsioni al business degli appalti, ma mantenendo sempre la stessa linea di sopraffazione e di violenza per affermare il proprio controllo del territorio, risolvendo nei modi più efferati i propri conflitti interni e quelli con i rivali. Tra i periodi più cupi non viene dimenticato il biennio 1981-1983, in cui fra i clan corleonesi guidati da Riina e Provenzano e le famiglie fedeli ai palermitani Bontade e Inzerillo, esplose una «guerra di mafia» che causò centinaia di morti. Nello stesso periodo si consumò anche il sacrificio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, inviato a Palermo nel 1982 sulla scia dei successi che l’alto ufficiale dei carabinieri aveva riscosso nella lotta ai terroristi delle Brigate Rosse e assassinato il 3 settembre di quell’anno mentre si trovava nella sua auto in compagnia della moglie Emanuela Setti Carraro. Il particolare che rende ancora più macabro il delitto del generale Dalla Chiesa – come ricorda Zingales – è che i mafiosi, contrariamente alle proprie abitudini e in pieno stile terroristico, avevano telefonato agli organi di stampa e rivendicato la paternità dell’omicidio, definendolo “Operazione Carlo Alberto”.
Nella storia di questa lotta c’è anche spazio per i successi e i colpi inferti alla criminalità mafiosa, come la reazione dello Stato all’indomani delle stragi in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che ha portato alla cattura di quasi tutti gli esponenti di primo piano di Cosa nostra e all’indebolimento dell’organizzazione criminale.