L’editoriale. Se per “l’amichettismo” conta la post-verità su Acca Larenzia, non la giustizia

14 Apr 2024 8:05 - di Antonio Rapisarda

La strage di Acca Larenzia, a distanza di quarantasei anni da quel terribile 7 gennaio del ‘78, porta con sé un’onta nella e per la coscienza dell’Italia repubblicana: l’assenza di colpevoli assicurati alla giustizia. Non è l’unico episodio oscuro e luttuoso dei maledetti Anni di piombo: eppure ne rappresenta il buco nero. Il nodo irrisolto. Vuoi per l’efferatezza dell’esecuzione nei confronti dei giovani missini, vuoi per l’impatto e le polemiche che il ricordo imprime, anno dopo anno, nelle cronache politiche.

Dovrebbe essere tale assenza – come abbiamo raccontato sul Secolo d’Italia a proposito di un altro assassinio politico il caso di Paolo Di Nella ma lo stesso vale per la vicenda del militante comunista Valerio Verbano, entrambi rimasti senza responsabili – la pietra dello scandalo, il terreno sul quale costruire un racconto comune: da quello frutto dell’inchiesta civile a quello politico e istituzionale. Chiudere il cerchio e imparare tutti dalla storia, insomma. E invece no: per uno strano e inquietante gioco, gli importanti progressi di ricomposizione e di ricerca della verità, compiuti fra gli anni ‘90 e la prima decade del 2000 da tanti esponenti della sinistra ufficiale e non, lasciano il passo a un’inquietante regressione storico-antropologica. Alla cattiveria.

Un istinto, badate bene, frutto di esponenti dell’intellighenzia che non hanno conosciuto né vissuto quella stagione (e nemmeno le successive) ma che da quella prendono – scientificamente – il peggio: la disumanizzazione dell’avversario politico. Quel moto d’odio che purtroppo, in quel frangente, portò troppe volte fino all’eliminazione fisica dell’altro da sé. Un gioco pericoloso, denunciato più volte da queste colonne a proposito dei cattivi maestri che tornano a farsi sentire; e che nel caso della scrittrice Valentina Mira assume i contorni grotteschi e sgangherati dell’operazione anti-governativa.

Ecco perché la vicenda del romanzo candidato allo Strega – al di là del “mistero” della biografia professionale dell’autrice e delle dinamiche di marketing (e di propaganda) che hanno seppellito da anni il premio letterario – ha colpito la nostra attenzione e indignato tanti lettori. Perché in quelle parole su Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta («È successo che due del FdG, vabbé gli hanno sparato. Eravamo in quegli anni lì, loro erano i primi del resto a sparare») si riscontra non solo una contestualizzazione dozzinale e dilettantesca ma un riduzionismo preoccupante: termometro della volontà di riscrivere la storia a misura di un nuovo antifascismo che non deve avere, secondo i suoi interpreti, granché o nulla da rimproversarsi.

È lo stesso plot narrativo, la stessa post-verità utilizzate, da vent’anni a questa parte, nei confronti delle tragedie delle Foibe: sono sempre i neo-partigiani (eh sì: la storia, diceva Marx, si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa…) ad invocare la «complessità» della questione del confine orientale come filtro con cui relativizzare gli eccidi dei partigiani titini a questione di “semplice”, quando non comprensibile, operazione anti-fascista. L’obiettivo è lo stesso: quello di annacquare – quando non rigirare – l’impatto della condanna, dunque della vergogna. Il salto di qualità, si fa per dire, è quello di considerare i giovani missini crivellati ad Acca Larenzia essenzialmente dei carnefici a cui, in fondo, andò storta una giornata. Un’operazione che nell’Italia “amichettista” merita niente poco di meno che la candidatura al maggior premio letterario nazionale. E meno male che saremmo immersi fino al collo in una chiara, pervasiva e totalizzante “deriva orbaniana”…

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