Veltroni riporta alla luce la tragica storia di Donato Carretta: un fascista linciato nel ’44 dalla folla assetata di vendetta
E’ un libro importante quello che Walter Veltroni ha voluto dedicare al linciaggio di Donato Carretta avvenuto il 18 settembre del 1944 (“La condanna“, editore Rizzoli). E non solo per il paragone tra l’odio di quel tempo e quello cui gli hater contemporanei danno sfogo sui social. E’ significativo infatti che Veltroni riprenda, in questo clima in cui imperversa un neo-antifascismo livoroso e anacronistico, il filo di un atteggiamento revisionista rispetto alla fine della seconda guerra mondiale che rese inviso alla sinistra tutta un giornalista valido e coraggioso come Giampaolo Pansa col suo “Il sangue dei vinti“. Un revisionismo autocritico di cui Veltroni diede prova quando da sindaco fece incontrare la madre di Verbano e uno dei fratelli Mattei sopravvissuti al rogo di Primavalle organizzato da Potere Operaio. E che emerse anche quando per il Corriere della sera volle ricordare il barbaro omicidio di Sergio Ramelli suscitando l’irritazione di personaggi alla Raimo.
Veltroni e il caso Carretta
Questo per dire che Veltroni, pur con le ambiguità di fondo che accompagnano tali operazioni, è uno che non si tira indietro quando c’è da fare i conti con le ombre della storia del comunismo. E a questo punto occorre citare quello storico valoroso che fu Giorgio Pisanò che coi suoi libri gettò il seme non di una controstoria sugli eccidi partigiani ma di uno sguardo più vasto e consapevole sulla guerra civile, espressione più consona per definire la guerra partigiana come riconobbe ormai diversi anni fa lo storico antifascista Claudio Pavone. E c’è anche in questa attrazione di Veltroni per il caso Carretta la sua passione per il cinema. A riprendere il processo in questione è infatti Luchino Visconti, incaricato dagli alleati di filmare le udienze.
Il linciaggio e gli agitatori del Pci
Mentre scriviamo abbiamo sottomano il libro di Pisanò “Sangue chiama sangue” dove si sottolinea che il linciaggio di Carretta fu la conseguenza di un’azione preparata e voluta dal Pci allo scopo di far esplodere nella folla il più pericoloso degli istinti: la sete di vendetta. Siamo a Roma, al secondo giorno del processo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine che vede sul banco degli imputati l’ex questore Pietro Caruso. Donato Carretta doveva fare la sua deposizione: parliamo del direttore del carcere di Regina Coeli, funzionario che si era prodigato per aiutare antifascisti e partigiani. Un fascista, ma del tutto estraneo all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Carretta non riuscì a fare la sua deposizione. Una donna vestita a lutto (secondo Pisanò un’agitatrice che agiva per ordine del Pci) lo accusa di avere consegnato suo marito ai tedeschi decretandone la morte. Carretta nega disperatamente ma la folla si impossessa di lui.
Carretta capro espiatorio
Così Giuseppe Fornari descrive il tragico epilogo: “Carretta comincia a essere schiaffeggiato e malmenato. Si salva a stento per l’intervento di due ufficiali alleati e dei carabinieri, che più volte cercano di farlo allontanare in auto. Tutto è inutile, la massa riesce infine a impadronirsi del malcapitato, e riprende in grande stile il pestaggio. A un certo punto viene l’idea di stenderlo sui binari di un tram per farlo lacerare dal convoglio, ma il conducente del mezzo si oppone e si salva a sua volta dal linciaggio esibendo la tessera del Pci. Porta con sé la leva di azionamento del tram e l’auspicata mattanza così non riesce. Carretta, ormai ridotto a un tronco di sangue e tramortito, viene allora gettato nel Tevere, ma l’acqua rianima l’uomo, che cerca disperatamente di salvarsi a nuoto; senonché dei bagnanti, che stavano prendendo il sole sulla riva del fiume, rispondono prontamente alle grida di morte della folla e a bordo di due scialuppe, che il povero Carretta certamente sperava giungessero in suo aiuto, lo finiscono colpendolo con i remi, mentre altri si tuffano per spingerlo dove più forte era la corrente. L’affogamento è inevitabile. Il cadavere viene poi pescato dalla folla, trascinato al carcere di cui era stato direttore e appeso nudo a testa in giù alla grata di una finestra della facciata, in segno di ultimo scherno, e in modo che potesse vederlo la moglie, che si trovava lì vicino”.
Veltroni: mi ha colpito la sua solitudine
Un personaggio complesso – dice Veltroni – che mi ha colpito per la sua solitudine. Carretta dice solo sommessamente “aiutatemi”, ma l’istinto bestiale della folla è implacabile. Veltroni si premura anche di dire che l’antifascismo non c’entra con quell’esecrabile episodio ma la stampa comunista parlò all’epoca di “sacrosanto atto di giustizia popolare” per la crudele sorte di Carretta. Sul quale cadde poi l’oblio. E al Palazzaccio, dove si svolse la prima parte del linciaggio, non c’è alcuna targa che ne ricorda la memoria. Vittima due volte, di coloro che lo trucidarono e della successiva rimozione storica.