Feltri all’attacco del totalitarismo semantico: “Io uso tutte le parole proibite e me ne vanto”

28 Ott 2023 9:20 - di Francesco Severini
Feltri

Esce il 31 ottobre il nuovo libro di Vittorio Feltri, provocatorio e irriverente come è nello stile di un giornalista scomodo. Si intitola «I fascisti della parola. Da negro a vecchio, da frocio a zingaro, tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca» (Rizzoli). In una fase storica in cui l’abuso della parola fascismo è all’ordine del giorno, come denuncia Daniele Capezzone nel suo pamphlet (“Basta con ‘sto fascismo“) Feltri rovescia l’accusa e stana le vere forme di intolleranza che gravano sulla società a cominciare dal linguaggio.

Feltri: la parola “negro” non ha connotazione dispregiativa

Dagli estratti pubblicati da Libero e Il Giornale si evince quale sia il sottotesto implicito nello scritto di Feltri. Alcune parole sono state trasformate in offesa ma nel senso comune non lo erano affatto. “Oggi la parola “negro” costituisce una ingiuria, quindi una offesa, per di più grave. Almeno stando non ai codici giuridici bensì alle prescrizioni lessicali imposte dai progressisti sia in Italia sia all’estero. Questo controllo semantico è sempre più totalizzante e invasivo, ci condiziona senza che neppure possiamo accorgercene. Tanto che qualche volta al bar quasi ci vergogniamo a ordinare un “Negroni”, per il timore di offendere involontariamente qualcuno e di essere redarguiti. Eppure fino a qualche anno fa cantavamo a squarciagola canzoni quali I Watussi di Edoardo Vianello. Che dice «Siamo i watussi, siamo i watussi, gli altissimi negri», oppure El negro Zumbon di Nilla Pizzi. Guardavamo fino alla nausea film intramontabili che hanno fatto la storia del cinema, quali Via col vento (1939) o Indovina chi viene a cena (1967), dove “negro” viene ripetuto in continuazione e non ha alcuna connotazione dispregiativa”.

Il caso di Fausto Leali cacciati dal Grande Fratello

L’incriminazione – osserva ancora Feltri – “è sempre lì, dietro l’angolo, pronta a pioverci addosso, facendoci percepire alla stregua di un mostro”. Quindi ricorda quanto accaduto “al cantante Fausto Leali nel settembre del 2020, espulso dal Grande Fratello Vip, programma di Canale 5 condotto dal giornalista Alfonso Signorini, per avere affermato: «Nero è un colore e negro invece una razza». Con questa frase, è evidente, il cantante non esternava un giudizio negativo sulle persone dalla pigmentazione color cioccolato, piuttosto puntualizzava che “negro” è termine che si adopera in riferimento alla razza. Piccolo inciso: oggigiorno pure la parola “razza” è stata messa al bando. Quindi Leali è stato colpevole di avere messo in una stessa frase due vocaboli assolutamente vietati. Ecco perché per lui, nello Stato etico in cui dimoriamo, dove veniamo puniti per comportamenti considerati immorali e criminali senza che siano né una cosa né l’altra, è stato inevitabile essere eliminato dallo show”.

Feltri: non tradirei mai la “patata”

Parlando poi degli omosessuali Feltri non si fa scrupolo di inanellare una serie di vocaboli proibiti: “Io personalmente non ho nulla contro i gay, soprattutto da quando non rimorchiano più nei cinema… I froci mi piacciono, sebbene non sia ricchione. Ho un animo frocio, anche se non tradirei mai la patata a cui giurai devozione eterna. Sono appena riuscito a inserire due parole vietate in una stessa frase, basta questo a fare di me un sovversivo. Ad ogni modo, oggi le cose non vanno molto meglio rispetto al passato. Sì, va bene, non è più un divieto essere frocio, però adesso, anzi già da un po’, “frocio” è severamente vietato dirlo. Insomma, non è un reato prenderlo nel posteriore (anche perché altrimenti le carceri scoppierebbero), ma è un reato la parola. Insomma, viviamo in una società in cui essere ricchioni dichiarati rappresenta un valore aggiunto, eppure ci scandalizziamo ancora per il termine “finocchio””.

L’esilarante intervista a Paolo Isotta

Perché – si domanda Feltri – “predichiamo la libertà sessuale nonché quella sacrosanta all’orientamento sessuale, però ci indigniamo davanti all’uso libero della lingua italiana?”.  Ciò che deve indignarci – conclude – “non è l’uso della parola, ma l’esistenza della discriminazione, ove questa ci sia”. E cita l’esilarante intervista a Paolo Isotta, “scrittore e giornalista del Corriere della Sera nonché mio carissimo amico, al quale un giorno di qualche anno fa fu chiesto: «Lei è gay?». E lui rispose con tono grave: «Io non so’ gay, io so’ ricchione!». Ancora oggi, quando ci penso, scoppio a ridere”.

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