Giustizia, la riforma non può attendere. Il caso Davigo lo prova oltre ogni ragionevole dubbio
Premesso che un condannato in primo grado resta innocente fino a sentenza definitiva, è impossibile non cogliere lo zampino della Nemesi nel verdetto che ieri ha rifilato al giudice Piercamillo Davigo 1 anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. La dea greca, si sa, era addetta alla riparazione delle ingiustizie, ma nel caso di Davigo la sua incarnazione nei giudici bresciani che hanno comminato la condanna si coglie soprattutto nelle implicazioni metagiuridiche della vicenda. A cominciare dalla clamorosa confutazione del principio base del Davigo-pensiero, secondo cui «non esistono imputati innocenti, ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca».
Le amnesie di Travaglio
Una frase ripetuta tante volte dall’ex-dottor Sottile del pool Mani Pulite in interviste e nei talk-show per la gioia dei mozzorecchi di ogni ordine e grado, che in quelle sue parole trovavano autorevole conferma delle loro pulsioni forcaiole. Non è un caso se a lacrimare per la sentenza di ieri sia stato, più dello stesso Davigo, Marco Travaglio, il capofila riconosciuto dei manettari. Chi ha letto il suo editoriale sarà rimasto senz’altro sorpreso dall’improvvisa amnesia che ha colpito il direttore del Fatto Quotidiano nel momento in cui avrebbe dovuto ricordare che in quel processo si era costituita anche una parte civile, cui il condannato presunto innocente dovrà risarcire 20mila euro.
Il processo vedeva Davigo contro Ardita
Secondo i giudici di primo grado, infatti, Davigo non si era fatto consegnare dal pm Storari i verbali riservati del faccendiere Piero Amara per salvare il Csm dalle manovre della cosiddetta loggia-Ungheria, bensì per mettere fuori gioco il collega Sebastiano Ardita. È questi, infatti, la parte civile. Morale: un tribunale ha condannato un magistrato, già consigliere di Cassazione, a risarcire un suo collega con il quale aveva, per altro, fondato una corrente – Autonomia & Indipendenza – rappresentata nell’organo di autogoverno della magistratura. Sembra incredibile, ma è la realtà. A conferma che Luca Palamara ha descritto solo in minima parte il degrado in cui annaspa la giustizia italiana e che la sua profonda riforma sia oggi non solo auspicabile, ma assolutamente necessaria. Anzi, per dirla alla Davigo, «va rivoltata come un calzino».