Vasco Pratolini, l’ostilità della critica di sinistra sconvolse la sua mente, fino al tracollo
Scrivo su Vasco Pratolini (1913-1991) non per il centodecimo anniversario della nascita, gli anniversari si duplicherebbero, ma per definire la presunta egemonia culturale della sinistra. Ne scrivo analiticamente nel mio recente libro: ”Ho vissuto la vita-Ho vissuto la morte”, Edizioni Armando. Intendo anche evidenziare la relazione o non relazione dello scrittore, intellettuale di sinistra, con la classe operaia. Dopo l’amicizia con Alberto Moravia, lo scrittore che frequentai di più nella mia giovinezza fu Vasco Pratolini, dico: frequentai, ma è un termine che riduce la nostra amicizia, giacché per molti anni ci vedevamo ogni giorno. Spesso restavo a cena da lui, ci incontravamo anche in qualche ferie estiva, oltretutto stavamo portando a buon fine un progetto sonoro , la storia della letteratura italiana dall’Unità agli anni Sessanta, in una prima parte, quella del Diciannovesimo secolo, curata da Pratolini; quella del Ventesimo secolo curata da me.
Vasco Pratolini, i 110 anni della nascita
Nel mio saggio su “Nuovi Argomenti”, al quale ho già parecchie volte accennato, prendevo in conto l’opera di Vasco Pratolini. Mi avevano colpito, dei suoi scritti iniziali, “Il tappeto verde” e, specialmente, “Un eroe del nostro tempo”. Pratolini era anomalo nella letteratura italiana, veniva da famiglia realmente popolana, impregnato in gioventù di elementi picareschi, avventurosi, estremi, oltretutto frequentando un “tipaccio” come Ottone Rosai. Nell’opera giovanile, “Il tappeto verde” veniva espressa questa emarginazione, anche in termini linguistici, con un possesso del gergo fiorentino “semidelinquenziale”, che, dicevo, mi colpì. Lo stesso avveniva per “Un eroe del nostro tempo”, fondato su un personaggio che ha vocazione di irregolarità. Erano scritti innovativi perché nella nostra letteratura questi personaggi hanno scarso posto essendo quasi tutti i letterati di famiglia piccolo borghese o borghese.
Gli incontri
Pratolini era veramente un popolano, anche gli altri testi della gioventù davano questa immagine di ambienti che egli conosceva benissimo e tracciava con rapidità e con un linguaggio che attingeva alla parlata corrente toscana. Vi era un altro aspetto di Pratolini totalmente difforme: l’intimismo, la malattia, il senso di morte, in tutta la sua opera successiva egli farà convivere entrambi gli aspetti. Incontrai per caso Pratolini , a Roma, aveva letto quanto di lui avevo scritto, mi invitò a casa sua. Abitava a Via Tolmino 12, nel quartiere Trieste Nomentano: una casa in affitto, giacchè Pratolini viveva soltanto di diritti d’autore e pure essendo molto venduto e realizzandosi dai suoi libri molti film non era assolutamente ricco, neanche benestante. Comunque, una piacevole abitazione, in un quartiere di media borghesia, per moglie Cecilia e per figlia, Aurelia.
Vasco Pratolini, il più avversato dalla critica di sinistra
Piuttosto piccolo, la schiena leggermente arrotondata e curva, mani grandi con dei pollici sviluppati, volitivi, mezzo calvo, con occhiali spessissimi ed occhi piccoli, scuri, attenti, un grande naso, grandi orecchie, molta passione politica che gli animava le braccia e le mani nel discorrere, nell’infuocarsi. Camminava svelto. Non era uomo di letture tranne quel che gli gradiva e giovava alla sua opera, in specie i francesi. Molto appartato non frequentava salotti, usciva raramente ma la sua casa era luogo di incontri mondiali essendo celebre in Sud America e taluni scrittori e cineasti venivano a trovarlo. Ricordo un cineasta sud americano, Fernando Birri, che diresse dei film estrosi, pazzoidi come spesso nei sud americani. Pratolini era amico di sindacalisti e , accennavo, aveva passione per la politica sociale, l’unico scrittore da me conosciuto a quei tempi che teneva in conto la classe operaia. Ma, paradossalmente, era il più avversato dalla critica comunista.
Pratolini visse come un incubo l’avversione della critica di sinistra
Ho accennato alla complessità del mondo della sinistra a quei tempi , tra le situazioni più stravaganti che di solito gli scrittori di sinistra erano i più maltrattati dalla critica di sinistra. Pratolini di questo se ne faceva un incubo, ogni volta che usciva un suo libro stava all’erta, non tanto per le critiche dei giornali come si soleva dire borghesi; ma per le critiche dei giornali di sinistra, che infatti piombavano aquilescamente con artigliate micidiali su di lui. La causa era abbastanza semplice. La sinistra non sapeva decidersi se volere un’arte rivoluzionaria sempre elogiatrice del proletariato e delle grandi speranze che esso racchiudeva, esigendo perciò testi implacabilmente antiborghesi; o se invece doveva accettare che il proletariato non era rivoluzionario o lo era sempre meno. Sicché quando un uomo come Pratolini non sottolineava la prospettiva proletaria in maniera netta gli piovevano addosso tutte le contumelie possibili: che si era imborghesito, che non aveva coscienza di classe e così via. Se d’altro canto talvolta voleva fare l’uomo di sinistra puro e convinto delineando prospettive rivoluzionarie, ma non era il caso di Pratolini, rischiava da qualche critico di sinistra di essere considerato troppo asservito al modello del realismo socialista.
Un episodio sconcertante
Insomma, o da coloro che sognavano la rivoluzione proletaria o da coloro che non volevano l’imitazione del modello del realismo socialista lo scrittore di sinistra aveva vita molto dura. E Pratolini la ebbe durissima. Sia “Metello”, il testo che iniziava una sua scorribanda nel mondo sociale italiano partendo dal proletariato; e poi via via analizzando la borghesia con “Lo scialo”, “Allegoria e derisione”, “La costanza della ragione” vissero sorte disgraziatissima. Tenuto conto però che “Metello” ebbe enorme successo e ne uscì anche un film abbastanza noto. Io ne curai l’ edizione negli Oscar Mondadori. Quanto detto non toglie che in ogni caso per la sinistra la cultura stava soltanto a sinistra. E mi sorge la considerazione, paradossale. La cultura era o presumeva di essere nella sinistra; ma non vi furono scrittori che rappresentarono dall’interno la classe operaia, la contraddizione già nascente di integrazione consumistica, velleità rivoluzionaria, terrorismo; meno che mai la vita in fabbrica, ancor meno la classe operaia come egemone e con strutture produttive modificate.
In un testo degli Anni Settanta uscito su Critica sociologica diretta da Franco Ferrarotti rilevavo come la classe operaia a guida comunista non dava l’annuncio di una società alternativa e superiore alla borghese. Che la sinistra fosse, almeno in letteratura, e non soltanto, quella che non offriva una alternativa di valori come la borghesia aveva concepito contro l’aristocrazia; che non formava una classe dirigente e una classe operaia che a sua volta non esprimeva cultura, arte, tranne qualche spunto, fu il paradosso di quegli anni. E il non vedere ancora nella classe operaia la classe salvatrice dei valori umani e culturali costituì il movente del mio testo, ed il cambiamento orientativo delle mie scelte.
Pratolini ed io, accennavo, avevamo in programma una storia della letteratura italiana nella nostra società negli ultimi cento anni, dall’Unità in poi. Ma accadde un evento che sconvolse la vita di Pratolini e disturbò la mia. Eravamo andati a Milano da Arnoldo Mondadori. Mondadori ci ricevette di primo mattino, credo che fossero le otto, era affezionato a Pratolini e lo trattava con bonomia. Mondadori era un uomo vasto di corporatura, una sorta di “rospone” acquattato dietro la scrivania con degli occhi marroni dilaganti negli occhialoni, un faccione largo, bocca lunga e denti separati, uno mi pare fosse spezzato, segno di fortuna. Acquattato ,sembrava anche un marajià di quelli grassi e buoni che comandano dolcemente ma sanno farsi obbedire all’istante. Ricordo che chiamò il figlio, non era Alberto , caduto in disgrazia, l’altro figlio, Giorgio, non arrivato ancora in ufficio. Giunse qualche minuto dopo e chiamò a sua volta il padre con voce concitatissima e impaurita mentre Arnoldo rispondeva con pacatezza e un totale senso di dominio e di potenza. Con Mondadori il Vecchio firmammo il contratto del testo di cui ho detto. Mondadori fu generosissimo economicamente, addirittura sostenendo che per compiere l’opera era giusto non fare altro e quindi dovevamo ricevere sufficiente denaro. Ed in realtà lavorammo con la casa editrice di via Sicilia, 136, a Roma, a nostra disposizione.
Il tracollo e l’abisso
L’iniziativa fu nota, un turbinio di scrittori che cercavano di avere posto. Anche amici e persone con cui era utile e gradevole parlare. Vedevamo Carlo Bernari, che diede origine al romanzo italiano sul proletariato con “Tre operai”; vedevamo l’ispanista Dario Puccini, il critico Ruggiero Jacobbi, una miniera di notizie soprattutto sulle riviste del Ventennio, io da parte mia frequentavo assiduamente Alberto Bevilacqua che emergeva come narratore. Alberto era fuori da consorterie, legatissimo alla sua città, Parma, ed a sue tragedie familiari, narratore volitivo, drammatico. Io cominciavo a lavorare negli ambienti universitari. Purtroppo in questa condizione fattiva avvenne l’imprevisto e fu tremendo. Le reiterate avverse critiche ai romanzi di Pratolini lo avevano ridotto in condizione derelitta, non se ne faceva una ragione. A parte Alberto Asor Rosa che mi pare lo criticasse ma non ne sono sicuro, la situazione toccò il fondo quando Mario Lunetta, per altro mio amico, tranciò nella maniera più nauseata il romanzo di Pratolini “La costanza della ragione”. Non so se fu questa la causa, ma Vasco che non aveva sicurezza culturale essendo autodidatta, concepì che se per il romanzo lo trattavano in quel modo, sulla storia della letteratura italiana curata da lui e da me gli sarebbero fioccate ingiurie ben maggiori.
Gli si devastò la mente, tracollo definitivo, abisso buio , smagrì da essiccarsi, usciva dal letto con difficoltà, non salvava la capacità di pensare. In quei frangenti sgomentati compì un atto rovinoso. Scrisse ad Arnoldo Mondadori di non poter compiere l’opera e invitava Mondadori a lasciare in cura a me la seconda parte e trasferire a Ruggiero Jacobbi la prima parte. Da Milano si precipitò a Roma Vittorio Sereni per capire quel che era successo forse supponendo che vi era stato un contrasto tra me e Vasco, si accorse delle condizioni di Pratolini, e comprese.
Vittima della cultura di sinistra
Sereni era un noto poeta , concepì un testo sulla “fabbrica”, una novità, allora, dirigeva la parte editoriale della Mondadori ed era uomo di corretto comportamento, scrupoloso e forse troppo severo con se stesso come artista. Mondadori accettò in un primo momento, io sbalordii di quella lettera che Vasco non mi aveva comunicato. Alla Mondadori fecero presente che un’opera di Vasco Pratolini e me era ben diversa da un’opera di Ruggiero Jacobbi e me. Vi era tuttavia un assurdo nella faccenda: Pratolini il testo l’aveva pressoché tutto scritto, questo dimostrava ancor di più la tragedia che egli viveva. Non voleva apparire, non voleva essere criticato dai giornali “amici”, voleva scomparire, intanarsi. Fu una vittima, lo devo ridire, della sinistra che uccide la sinistra. Come l’eccellente ceramista Leonardo Leoncillo che essendo uno scultore informale in epoca realistica venne talmente ignorato dalla sinistra, da morirne, anche per le condizioni misere della sua esistenza.
Il saggio di Ferrarotti
Non furono anni soltanto di dialogo, di confronto, furono anche anni asprissimi e vittime ne rimasero. E tra queste l’innocente Vasco Pratolini che amava il popolo, sentiva il popolo, lo voleva esprimere ma disgraziatamente incappò nell’ideologia, nella critica ideologica e questo lo paralizzò da non avere più disponibilità a scrivere. Intendiamoci, se i romanzi di Pratolini non erano considerati risolti espressivamente, legittimo malgiudicarli. Ma non in nome del trionfo e della speranza nel proletariato. Questa era ideologia: se tu non hai le mie convinzioni non sei artista! In quegli anni o di poco successivi, con un saggio pubblicato su “La critica sociologica”, di Franco Ferrarotti, come detto, notavo come la inattuazione delle idealità rivoluzionarie rendeva insensate le critiche estetiche di quanti avevano sostenuto che coloro che non indicavano nel proletariato il futuro non erano artisti realisti. No. Si poteva non credere nel proletariato rivoluzionario, nel comunismo, ed essere artisti. Solo quando una parte del comunismo divenne terrorismo si comprese il pericolo di tale spietatezza ideologica. Questo scontro dei comunismi l’ho vissuto non soltanto visto. Tra Sessantotto e terrorismo. La mia giovinezza. Con Vasco Pratolini l’amicizia sparì. Non soltanto per la sua sconsiderata decisione, poteva occultare il suo malessere e farsi aiutare da Jacobbi ma anche perché ormaiin condizioni pietose. Lo incontrai anni successivi, era morto Niccolò Gallo, uno della Mondadori, amico di entrambi. Vasco era uno scheletro, tutto rimpicciolito, addirittura l’ossatura della testa.