Strage di Bologna, l’ostinazione di una narrazione senza prove per raccontare una verità di comodo
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo
L’ormai ex-giudice Francesco Caruso non ha dubbi e lo scrive nelle motivazioni della sentenza a carico di Paolo Bellini: fu Gelli a ordinare la strage di Bologna, finanziando i Nar e gli altri gruppi eversivi e facendola compiere dallo stesso Bellini, aiutato da Sergio Picciafuoco. Dietro i terroristi neri, Federico Umberto D’Amato e altri elementi dei servizi segreti. Ovviamente, le prove di questo complotto sarebbero niente meno che “granitiche”.
Fare paragoni è sempre antipatico, ma necessario, in tema di Diritto, dove molte delle materie di studio, non a caso, sono “comparate”. E, da questo punto di vista, è difficile non ricordare come la sicurezza ostentata da Caruso in questa sentenza ricordi tanto quella del pronunciamento sulla strage di via d’Amelio e sulla “sincerità” e “affidabilità” di Vincenzo Scarantino. Quale fu l’esito di quella vicenda, è fin troppo noto.
Strage di Bologna, a proposito delle prove “granitiche”
Con la strage di Bologna, però, potrà certamente andar meglio a Caruso, visto quanto sia ammesso fantasticare, fuori e dentro le aule giudiziarie, sul tema.
Ma si torni alle prove: sono così granitiche? Per esempio, Picciafuoco, il quale certamente era alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980. Era lì per compiere la strage con Ciavardini e Bellini?
La Giustizia italiana ha stabilito di no, in via definitiva.
Sono state portate prove che mettono in dubbio quella assoluzione non più discutibile? No, c’è solo il convincimento di un magistrato che, a rigor di logica, non essendo
appeso ad alcun appiglio di concretezza anche minimamente apprezzabile, non dovrebbe trovare albergo alcuno nelle motivazioni d’una sentenza.
Gelli e il suo milione di dollari? Qui siamo addirittura al grottesco. Quando alla sbarra c’era Cavallini, il tanto decantato “appunto Bologna” avrebbe dimostrato inequivocabilmente come quei soldi fossero stati versati con un bonifico all’ex-Nar. Lo avrebbe ulteriormente provato un altro “appunto”, sequestrato al Cavallini stesso, quando fu arrestato a Milano nel 1983. La tesi venne smontata, anzi, fatta a pezzi in aula, nel corso di un’udienza in cui emerse quella che, in qualsiasi altro contesto, avrebbe fatto ipotizzare addirittura la “frode giudiziaria”.
Il milione di Licio Gelli
Trascorso un anno da quella brutta figura, il milione di Gelli, da versamento bancario, si trasformò in “consegna a mano” direttamente a Giusva Fioravanti, da parte di Marco Ceruti, faccendiere di Firenze in affari col “venerabile”. Ceruti è ancora vivo, anche se molto anziano, ma non impressionabile come altri, anche nel processo Bellini, dalla prospettiva di un rinvio a giudizio per falsa testimonianza, qualora non avesse ammesso di aver portato quei soldi al capo dei Nar. E certi che Ceruti avrebbe ceduto prima o poi, per due o tre anni si è raccontato, dentro e fuori dal tribunale di Bologna, di quella consegna che sarebbe avvenuta negli ultimissimi giorni di luglio del 1980. Ceruti, però, non ha ceduto e, data la caparbietà, non lo si è nemmeno trascinato in aula, dove sarebbe stato evidentemente imbarazzante ascoltarlo smentire questa ipotesi, lasciando, come si usa dire, semplicemente cadere la cosa.
Strage di Bologna, una ricostruzione “cristallizzata”
Dunque, la certezza del passaggio dei soldi di Gelli a Fioravanti? Nessun problema di “graniticità”, basta mettere la frase al condizionale: sarebbe stato Federico Umberto D’Amato a fare da postino. Tanto, è morto e mica può negare di aver effettuato la triste bisogna. Infine, la “confessione” di Maurizia Bonini, ex-moglie di Bellini. Per 40 anni, la signora ha detto esattamente il contrario di quanto va testimoniando da qualche tempo a questa parte. Su come la donna sia giunta a questa ritrattazione sugli orari di partenza e arrivo al mare di Bellini il 2 agosto
1980, è meglio stendere un velo pietoso; ma come tacere sul fatto che questa sua nuova versione sia stata assunta come convalida del riconoscimento del Bellini in un fotogramma che – con un’analisi condotta in base alle più moderne tecniche di comparazione delle immagini – si è stabilito ritrarre chiunque, tranne che l’imputato?
Di “granitica”, nella sentenza di primo grado a carico di Bellini, insomma, c’è solo l’ostinazione nel voler cristallizzare una narrazione della strage del 2 agosto ‘80 anche a scapito delle verità scientifiche che, da otto anni ormai, dimostrano come sia accaduto ben altro, alla stazione di Bologna, quella maledetta estate. Un “ben altro” che presto emergerà con forza e costringerà tanti, fuori e dentro le aule di tribunale, a vergognarsi di quanto fin qui sostenuto.