Difendere l’italiano o l’«itainglese»? Il primo è figlio di Dante, il secondo del provincialismo
Non sappiamo se la proposta di Fabio Rampelli di tutelare la lingua italiana ha – come pure assicura il ministro Antonio Tajani – un «sapore mussoliniano». Di sicuro incrocia un’esigenza assai sentita, e non solo tra i nostalgici del Ventennio, ma anche tra studiosi di chiara fama, esperti di comunicazione, glottologi e persino tra i severi custodi dell’Accademia della Crusca. Studiosi e istituzioni cui non è sfuggito il progressivo sfarinamento della lingua italiana per effetto delle robuste iniezioni di anglicismi (soprattutto) arrivati sull’onda delle nuove tecnologie, delle scienze e del business (ahi!). Il risultato è l’adozione di un itanglese (copyright Annamaria Testa) che dilaga persino negli atti della pubblica amministrazione, spesso a danno della trasparenza e della democrazia.
L’itainglese dilaga anche negli atti della P.A.
Abbiamo leggi come il Jobs Act (giobàt per i tiggì) mentre durante l’ultima fase del Covid abbiamo imparato che il richiamo della vaccinazione funziona meglio a chiamarlo booster, senza ovviamente tralasciare che nel frattempo le badanti si sono trasformate in caregiver e che un sistema fiscale ad aliquota unica fa più presa sull’opinione pubblica come flat tax. Anni fa sul portale turistico lanciato dal ministero dei Beni culturali in occasione dell’Expo milanese campeggiava un incredibile Very Bello. Non è uno scherzo.
La pizza si chiama così in tutto il mondo
Come non lo fu l’ideona dell’ex-sindaco Ignazio Marino di trasformare il marchio turistico della Città Eterna in un incomprensibile RoMe and You. Trovate una sola città al mondo che storpia il proprio nome per promuoversi e poi ne riparliamo. All’ex-Alitalia non ha portato bene: oggi si chiama Ita Airways, ma lo stesso non decolla. Ma l’itainglese fa la parte del leone anche sulle insegne dei negozi: leggiamo wine al posto di vino e food invece di cibo. Poi giri il mondo e ti accorgi che per gli altri l’italiano è la lingua dello stile, della moda e dell’alta classe. E anche che all’estero la pizza si chiama pizza.
La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo
L’italiano è il quarto idioma più studiato al mondo. Viene da chiedersi perché, dal momento che non è la lingua della tecnologia, delle scienze o della business community (ri-ahi!). Semplice: perché è bella, perché evoca appunto arte, raffinatezza, cultura. Non a caso Thomas Mann la definì «la lingua degli angeli». Tutelarla dall’itainglese, non in nome di una purezza immaginaria che nessuno rivendica bensì in nome del rispetto che ciascuno deve alla proprie radici, è persino un dovere. Tanto più che dire call al posto di telefonata o briefing al posto di riunione è solo una penosa esibizione di provincialismo. E della peggiore specie.