Democrazia senza sovranità popolare, il vero patto tradito è stato quello con gli elettori
Nel recente confronto sulla fiducia al Governo Draghi c’è stato un convitato di pietra del quale in pochi hanno parlato (a ben guardare solamente gli esponenti di Fratelli d’Italia) e che avrebbe dovuto rappresentare il vero protagonista del confronto “democratico”. Si tratta del popolo italiano, a cui appartiene la sovranità, “che – come afferma il primo articolo della nostra Legge fondamentale – la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”: una banalità per un sistema democratico-parlamentare a cui formalmente appartiene il nostro Paese.
Più facile parlare – come è stato fatto in questi giorni – di “patto di fiducia” tra i partiti: un patto di potere – diciamolo con tutta franchezza – che era finalizzato a conservare l’attuale establishment, nel nome di quello “stato di eccezione”, su cui si sono retti gli ultimi governi e che fino a ieri ha sostituito, nella sua essenza, la stessa Carta costituzionale.
Al punto che – come hanno dimostrato le recenti tornate elettorali – sarebbe più corretto parlare di “stato di esclusione”: un patto non scritto nel quale viene sancita la rottura del rapporto fiduciario tra Istituzioni e cittadini, facendo emergere l’idea di un sistema “selettivo” (lontano dal comune sentire).
Sul tema ci sono schiere di “teorici”. Nel 1963, in Società e intellettuali in America, Richard Hofstadter scriveva: “La complessità della vita moderna ha costantemente ridotto le funzioni che un comune cittadino può svolgere in autonomia con intelligenza e competenza”. Negli States questa complessità, via via veicolata tra l’opinione pubblica, ha prodotto sentimenti di impotenza e di rabbia nella massa dei cittadini, consapevoli della loro inadeguatezza rispetto allo sviluppo della tecnologia e delle competenze professionali, aumentando il ruolo delle élites tecnocratiche e la divisione sociale del lavoro, sempre più specializzato. In questo sistema l’uomo comune è escluso, reso inutile. Per questo non vota.
Jason Brennan, con il suo saggio Contro la democrazia (2016) è andato oltre, portando al centro del dibattito sulla democrazia il tema della “selezione” dell’elettorato, tema che apparteneva alla cultura liberale di stampo ottocentesco.
Le analisi di Brennan sono state interpretate come “correttivi” del sistema democratico, laddove egli non mette in discussione il modello della democrazia rappresentativa quanto le sue modalità di funzionamento, contro un uso “indiscriminato” del diritto di voto. In realtà al fondo di questa idea (l’epistocrazia: il governo di coloro che conoscono, dei competenti) è presente una visione discriminatoria, sostanzialmente moralistica, del sistema rappresentativo, che Brennan definisce principio di antiautorità: “quando alcuni cittadini sono moralmente irragionevoli, ignoranti o politicamente incompetenti, è lecito non consentire loro di esercitare autorità sugli altri. O impedendo loro di detenere il potere o riducendo il potere che hanno, al fine di proteggere persone innocenti dalla loro incompetenza”.
Su queste basi anche “tradire” la fiducia degli elettori è legittimo. Sta qui il nocciolo della questione italiana: l’indifferenza del sistema parlamentare rispetto all’ “altro” (il cittadino elettore e le sue scelte), l’azzeramento delle storie condivise (i programmi elettorali), l’annullamento di qualsiasi appartenenza comune (le visioni politiche ed i valori che dovrebbero sostenerle). E’ il senso attuale di una “crisi di sistema” che ha di fatto snaturato ogni corretto rapporto tra eletti ed elettori, permettendo ai primi di essere liberi di “tradire” ogni vincolo e lasciando i secondi privi di qualsiasi strumento di controllo-intervento. In sintesi: passata la festa (elettorale) gabbato lo santo (elettore), con i risultati a tutti ben evidenti, naturalmente nel nome di una democrazia parlamentare sempre più svuotata di significato.
A restare sospesa è la domanda di partecipazione alle decisioni politiche del “popolo sovrano” (la democrazia come partecipazione di un popolo al proprio destino …) a fronte delle “logiche” tecnocratiche e ai processi di “disintermediazione”, che hanno svuotato il sistema della rappresentanza popolare. Quando si tradisce, indipendentemente dal tipo di tradimento, si cancellano la storia e la memoria condivise, ci si mostra indifferenti all’altro, si rimette in discussione l’appartenenza comune. In gioco c’è molto di più del destino di un governo o di una maggioranza parlamentare.
In pochi fino a ieri sembravano accorgersene. Al punto da fare apparire un’anomalia il ritorno alla regola costituzionale (il voto, espressione della sovranità), nel segno di uno “stato d’eccezione” che qualcuno vorrebbe considerare permanente, fino a prefigurarlo già come un orizzonte necessario per il dopo elezioni: un appuntamento “epocale” visti gli interessi in gioco, su cui – da subito – è urgente tenere ben alta la guardia e l’attenzione.