11 settembre, la lunga attesa di Bush sull’Air Force One prima di poter tornare a Washington
Dopo essere stato informato degli attacchi in corso contro l’America, l’11 settembre di venti anni fa, durante una visita in una scuola elementare in Florida, l’allora presidente George Bush venne caricato con urgenza dagli uomini della sicurezza a bordo dell’Air Force One. Dove attese nelle ore successive l’autorizzazione a rientrare a Washington.
Avviate le procedure di decollo alle 9.55 locali, «i servizi ci informarono che qualcuno sembrava posizionato a fine pista con un’arma a lunga gittata». A ricordare quei drammatici momenti è stato – parlando con History – il pilota dell’Air Force One, il colonnello Mark Tillman. Il comandante prese allora la decisione di girare l’aereo e farlo decollare nella direzione opposta, in salita ripida. «Muso in su, coda in giù, come se fossimo sulle montagne russe», riferì il consigliere politico di Bush Karl Rove.
11 settembre, Bush sull’Air Force One
Non molto tempo dopo il decollo, un aereo di linea colpì il Pentagono. Un altro attacco sembrava in arrivo. Non sapendo quanti altri aerei dirottati avrebbero potuto dirigersi verso la capitale, i servizi decisero che non sarebbe stato sicuro riportare il presidente a Washington, malgrado la sua insistenza per farvi rientro. Mentre l’Air Force One sorvolava il Golfo del Messico, l’equipaggio apprese che la Casa Bianca aveva ricevuto una minaccia anonima che diceva: «Angel (nome in codice per l’Air Force One) è il prossimo».
Nel timore di una minaccia interna al volo, Tillman e il sergente maggiore Will Chandler, capo della sicurezza, ordinarono alle guardie di prendere posizione fuori dalla cabina dell’aereo. Gli agenti erano stati piazzati al centro del velivolo per impedire a chiunque di avvicinarsi alla parte anteriore, dove si trovavano gli alloggi del presidente. Chandler ordinò quindi agli agenti di scansionare nuovamente l’aereo per escludere la presenza di potenziali bombe o sostanze pericolose.
11 settembre, il ricordo del pilota
Una volta rafforzata la sicurezza interna, Tillman portò l’apparecchio ad un’altitudine insolitamente elevata, 45.000 piedi. «Eravamo ad una tale altezza che era come se fossimo su un’autostrada tutta per noi», ha poi spiegato l’agente dei servizi segreti Wilkinson a History. «Quindi se qualcuno si fosse presentato su quell’autostrada, avremmo saputo che non stava facendo nulla di buono».
Ad un certo punto, Tillman fu informato dagli operatori radio di Houston che un aereo non identificato era dietro di loro. Il panico regnò a bordo fino a quando vennero informati che si trattava di due F-16 incaricati di scortare l’aereo presidenziale.
Le insistenze di Bush per tornare a Washington
Il presidente Bush insistette ripetutamente per tornare a Washington e parlare alla nazione. Ma la situazione era ancora troppo incerta per chi si doveva occupare della sicurezza e le comunicazioni a bordo frammentarie e confuse. Ormai le torri del World Trade Center erano crollate, il Pentagono era stato colpito e il volo 93 si era schiantato in Pennsylvania.
L’aereo fece scalo per rifornirsi nella base dell’aeronautica di Barksdale a Shreveport, in Louisiana, dove Bush, portato nell’ufficio del comandante, poté comunicare con il vicepresidente e pronunciare un breve discorso alla nazione non trasmesso in diretta.
L’aereo del presidente fece un’altra sosta prima di tornare finalmente a Washington, presso il Comando strategico degli Stati Uniti situato nella Offutt Air Force Base (Stratcom) a Omaha, nel Nebraska. Qui, il presidente fu portato in un centro di comando dove fu finalmente in grado di condurre una riunione in videoconferenza con il suo gabinetto.
Il rapporto della Cia sui terroristi
Fu allora che ricevette finalmente un rapporto della Cia che identificava gli agenti di al Qaeda che erano saliti sui quattro aerei dirottati. Bush insistette nuovamente per rientrare alla Casa Bianca. «Sapevo di dover pronunciare un discorso alla nazione quella notte ed ero assolutamente sicuro che non lo avrei fatto da un bunker a Omaha, nel Nebraska. Ho detto: “Torna a casa”. Mi hanno risposto: “Glielo sconsigliamo”. E ho replicato: “Bene, sto arrivando”».
Quando l’aereo del presidente finalmente decollò per Washington alle 16:33, ricevette un altro rapporto della Cia che suggeriva che gli attacchi del giorno erano solo la prima di due ondate e che un’altra stava per colpire. Per fortuna, la notizia si rivelò falsa. L’Air Force One atterrò a Washington, Dc alle 18:44. E alle 20:30, Bush fu finalmente in grado di rivolgersi alla nazione dalla Casa Bianca.