Calcio, per il “Corriere” il Belgio è forte perché «multietnico». E allora la Francia?

2 Lug 2021 18:53 - di Marzio Dalla Casta
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Come le stagioni, anche il gioco del calcio non è più quello di una volta. E non solo per i suoi continui inchini al profitto ma soprattutto per il sovraccarico ideologico che rischia di schiantarlo. Era prevedibile. Una vetrina troppo popolare e globale il pallone per non indurre in tentazione falsi profeti e ancor più falsi filantropi. E gli effetti si vedono: non v’è più appello, mobilitazione o petizione che non veda il nome o il volto di un campione. Più che uno sport, il calcio è ormai una sorta di serbatoio di celebrity da noleggiare come carrozzelle in omaggio all’obiettivo del momento, sempre nel segno del politically correct. Battaglie spesso ideologicamente orientate. O dalla tempistica quanto meno sospetta, come dimostra la concomitanza tra le recenti proteste in sede Ue contro il governo ungherese per una legge sull’omosessualità e il pressing sull’Uefa perché autorizzasse ad illuminare con i colori dell’arcobaleno l’Allianz Arena di Monaco di Baviera.

Il calcio vetrina del politically correct

Forte di tali premesse, davvero non stupisce che ora il Corriere della Sera arrivi a spiegarci che la forza del Belgio, più che nella forza atletica di un Lukaku o nell’intelligenza calcistica di un De Bruyne, sta nella sua multietnicità: congolesi, marocchini, martinicani, ghanesi, portoghesi che tra loro comunicano in inglese. Il giornalista del Corriere non lo scrive, ma si capisce che la nazionale belga è per lui la futura umanità. Dopo tutto, è anche la squadra che s’inginocchia più convintamente al rito del Black Lives Matter. Al momento, però, la tesi della multietnicità come segreto del successo non regge all’urto dei fatti. Almeno nel calcio. Lo sanno bene i francesi, la cui multiNazionale ha dovuto arrendersi alla Svizzera.

Le Nazionali sono anche un distillato di storia comune

Ma vale anche per la Germania, sempre più zeppa di cognomi esotici e perciò del tutto incapace di sprigionare quel teutonico furore che la rendeva temibile anche da agonizzante. Già, piaccia a meno, le nazionali sono anche un distillato di identità e di storia comune. Per un irlandese il match contro il Portogallo non vale quanto quello contro l’Inghilterra. Del resto non lo fu neanche per gli argentini in Messico nel 1986. Maradona (mano de Dios nell’occasione) e compagni sconfissero i Leoni di Highbury per 2 a 1. Una partita di calcio, certo. Ma per molti giornali fu anche la rivincita della guerra delle Falkland di qualche anno prima. Ecco, lo sport, in particolare il calcio, è anche questo. Pensare che negli individui e nelle comunità tutto sia sostituibile è una illusione, e neanche tanto bella. Speriamo di averne conferma tra qualche ora: forza Azzurri!

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