Gender: da Soros in su, ecco brand e imprenditori che sponsorizzano la causa. E fanno business

26 Mag 2021 17:32 - di Bianca Conte
trans e business

Causa trans e business: da Soros in su, sono molti e tutti degni di nota, i brand e gli imprenditori che sponsorizzano la crociata gender e il suo giro d’affari socio-umanitari, oltre che particolarmente rispondenti a logiche politiche e di marketing. Del resto, è vero: le idee camminano sulle gambe degli uomini, come ebbe a dire il grande Giovanni Falcone all’epoca delle sue inchieste. Ma senza i soldi di alcuni Paperoni mondiali non arriverebbero molto lontano, si potrebbe aggiungere oggi. E allora, sempre seguendo gli insegnamenti e le strategie del magistrato siciliano, urge anche rispolverare il metodo «follow the money». Ed è proprio partendo da questo presupposto che Francesco Borgonovo, vice direttore de La Verità, muove i suoi circostanziati passi alla ricerca di flussi e transazioni di denaro che hanno «ridato motivazioni a tante Ong arcobaleno ormai a corto di obiettivi». E da Soros a Stryker. Da aziende e istituzioni. Tra passaggi societari ascrivibili al mondo dell’attivismo Lgbt, l’inchiesta giornalistica indica tutti i «ricchi maschi bianchi» affezionati alla causa. E altrettanti finanziamenti utili alla causa gender…

Trans, il business e i numeri del censimento

Tutto parte, nella ricostruzione de La Verità, all’inizio del 2020: quando l’Università di Firenze. L’azienda ospedaliera Careggi. La fondazione The bridge. L’Osservatorio nazionale sull’identità di genere e l’Istituto superiore di sanità, hanno dato il via a un’indagine chiamata Spot. Ossia: «Stima della popolazione transgender adulta in Italia». Lo scopo dello studio mirava a ricostruire, in una sorta di censimento, quanti fossero effettivamente – a transizione avvenuta o in procinto di raggiungimento – i transgender sul territorio italiano. Ebbene, come riferisce il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, «nel presentare l’indagine, Marina Pierdominici dell’Istituto superiore di sanità, parlando con Repubblica, azzardò una stima: «I dati della letteratura scientifica internazionale suggeriscono che la percentuale di popolazione transgender dovrebbe essere compresa tra lo 0,5 e l’1,2% del totale. Se confermata anche nel nostro Paese, consterebbe in circa 400.000 italiani».

Il controverso tema dell’autodeterminazione dell’identità di genere

Una cifra che rimanda a percentuali piuttosto basse. E allora, la domanda sorge spontanea: al di là del fatto incontrovertibile secondo cui anche le minoranze hanno diritto e necessitano di rappresentanza, come mai la crociata gender ha, specie da un punto di vista mediatico, tanta rilevanza e spazi ad hoc nel mondo dell’intrattenimento televisivo? E, soprattutto, come e perché si è approdati al punto di asserire come improcrastinabile la necessità di una legge che, come prima cosa, prevede l’autodeterminazione dell’identità di genere, idea chiaramente caldeggiata dai movimenti trans, ma altrettanto palesemente invisa in chiave bipartisan, da molti sia a destra che a sinistra?

Causa trans e business mondiale, il ruolo della britannica Stonewall

Ma tant’è: ci si domanda, però, come sia possibile che argomenti come quello del «gender Id» siano diventati prioritari nel dibattito politico, nonostante la evidente residualità numerica asserita negli studi statistici? Domande che si affastellano a domande e che alimentano una discussione che va ben oltre i limiti etici e giuridici. Sui cui aspetti economici l’inchiesta de La Verità rileva quanto segue: «La prima organizzazione a compiere un massiccio investimento sulla promozione delle istanze trans è stata la britannica Stonewall, una delle più grandi in Europa».

L’ombra di uno «scarso impegno sui diritti transgender»

E ancora: «Proprio in questi giorni la Commissione per l’uguaglianza e i diritti umani (Ehrc) britannica – finanziata con denaro pubblico – ha cancellato la sua adesione al programma «Diversity champions» di Stonewall. Il motivo ufficiale è il cattivo rapporto qualità-prezzo del servizio. In realtà dietro la rottura ci sono tensioni legate soprattutto alle questioni trans, dato che Stonewall ha pubblicamente criticato l’Ehrc per il suo presunto scarso impegno sui diritti transgender». Dunque, a parte il fatto che La Verità sottolinea che l’associazione britannica in questione, che nasce nel 1989 con l’obiettivo di occuparsi per lo più di gay e lesbiche, ha iniziato a occuparsi di problematiche trans dopo il 2013, cioè l’anno in cui nel Regno Unito sono state approvate le unioni omosessuali.

Il contributo delle Associazioni sostenute anche da denaro pubblico

Va detto, più in generale, che la causa transgender nel tempo è riuscita ad avocare a sé spazi e protagonisti per associazioni Lgbt molto influenti. Che rischiavano di venire depauperati, almeno in parte, e il loro operato svuotato di senso. «Queste associazioni – scrive infatti Borgonovo – sostenute pure da soldi pubblici (come nel caso della britannica Mermaids che si occupa di ragazzini con varianza di genere), hanno conquistato negli anni un forte peso mediatico e politico, e lo sfruttano con furbizia e un pizzico di cinismo». Il punto, allora, resta quello dell’importanza. Quasi della centralità che il tema ha acquisito. Prendendo piede dal punto di vista sociale, anima istituzionale e corpo economico. Per cui, per esempio, sottolinea l’inchiesta giornalistica in oggetto, «attualmente del programma Diversity champions fanno parte circa 850 aziende e istituzioni: Stonewall (dietro pagamento di una quota) offre loro consigli su come «gestire le diversità», poi emette una sorta di bollino arcobaleno. Iniziative come queste hanno contribuito a creare un patrimonio di circa 8 milioni di sterline».

Il ruolo della Open society foundations di George Soros

Ma non è ancora tutto. Perché l’improvvisa accelerazione che la crociata trans ha registrato negli ultimi tempi non può essere giustificata soltanto con l’ausilio del lavoro promosso da associazioni Lgbt particolarmente attive e capaci. Dietro, infatti, secondo il lavoro svolto da Borgonovo, ci sarebbero anche «organizzazioni dotate di notevole potere economico, ad esempio la solita Open society foundations di George Soros». E su questo, Borgonovo, cita cifre e dati ben precisi. Quelli, per esempio, riferiti già da Kelly Riddell Sadler – giornalista, già consulente per la comunicazione di Donald Trump alla Casa Bianca – il quale diede sostanza numerica a dubbi e ipotesi, «calcolando che tra il 2013 e il 2016 Soros avesse finanziato associazioni come la Gay straight alliance (100.000 dollari nel solo 2013) o la Gate (Global action for trans equality, 244.000 dollari nello stesso periodo)». Tutto verificabile, rilancia La Verità: «Del resto basta farsi un giro sul sito di Open society per trovare più di un articolo in cui si sostiene che è tempo di «dare all’attivismo trans il supporto di cui ha bisogno».

Trans e business, tutti gli imprenditori al soldo della causa

Un business, quello legato al mondo Lgbt che si è incrementato nel tempo e dilatato nello spazio. E che, a un certo punto, registra un’impennata che fa parlare proprio di svolta, dovuta soprattutto al contributo dell’attività svolta da Arcus. Una Ong, illustra Borgonovo nel suo ampio servizio, «fondata e curata da Jon Stryker, ricco magnate dell’industria sanitaria. Come ha documentato la giornalista e attivista Jennifer Bilek (i cui articoli sono stati ben sintetizzati da Feministpost.it), “tra il 2016 e l’aprile 2021 Arcus ha investito quasi 74 milioni di dollari in promozione della giustizia sociale. La maggior parte dei suoi beneficiari avevano a che vedere con l’ideologia dell’identità di genere”».

La crociata trans, un business a livello globale

Non solo. A detta del servizio, «Arcus è stata una delle principali promotrici della causa trans a livello globale. Finanzia associazioni Lgbt storiche e potenti come Ilga. Arcus ha sovvenzionato anche la britannica Stonewall. Arcus, nel 2013, «ha scelto come direttore del programma internazionale per i diritti umani Adrian Coman, proveniente dalla Open society foundations. Nel 2015, invece, la Arcus ha raccolto 20 milioni di dollari per la New global trans iniziative in collaborazione con una fondazione chiamata Novo, che si occupa anche di sostenere Black lives matter e altri movimenti analoghi».

Tutti i Paperoni che foraggiano la causa trans e il suo business

Ebbene la Arcus haq il suo padre nobile nella figura di Peter Buffett, figlio di Warren Buffett. Ma nbon sarebbe il solo Paperone a foraggiare la causa trans. «Secondo Jennifer Bilek – riferisce infatti La Verità – , dietro l’esplosione delle istanze trans ci sarebbero principalmente “uomini. Bianchi. Estremamente ricchi e con un’enorme influenza culturale”. Tra cui il già citato Soros, Jennifer Pritzker (imprenditore trans con un patrimonio da due miliardi di dollari circa). L’attivista, imprenditrice e transumanista orgogliosa Martine Rothblatt. L’imprenditore Tim Gill (il primo gay dichiarato nella lista dei 400 ricchissimi di Forbes). In effetti, tutti costoro risultano finanziare e spalleggiare a vario titolo i movimenti transgender.

Ecco i brand e le firme illustri che appongono il marchio di fabbrica alla crociata trans

E insieme a loro, compaiono le sigle di grandi holding. Perché La causa trans gode del sostegno, se non altro propagandistico e mediatico, di alcune tra le più grandi aziende del mondo. Come dimostrato quando, nel «settembre 2020, Stonewall ha organizzato un grande evento a sostegno della causa trans intitolato «Trans rights are human rights». Lo hanno sostenuto 136 grandi aziende tra cui Amazon, Aviva, Citi, Google, Deliveroo, Deloitte, Microsoft, JP Morgan, Disney, Visa, P&G, Zurich». Brand e marchi illustri che hanno apposto il loro marchio di fabbrica sulla causa gender. Insieme ad altre grandi firme, scrive Borgonovo, «schierate politicamente per bloccare “le leggi che influenzerebbero l’accesso alle cure mediche per le persone transgender. I diritti dei genitori. I servizi sociali e familiari. Gli sport studenteschi o l’accesso a strutture pubbliche come i bagni”. Tra queste ci sono Apple, Airbnb, Dell, Facebook, Hilton, Ibm, Ikea, Nike, Pepsi, Pfizer, Uber, Unilever, Wells Fargo. Nulla di illegale». Semplicemente tutti sono concordi nell’alimentare un business su cui si urla tanto alla congiura. Ma che, a ben vedere, ha più crociati al suo soldo che frondisti contro. Tutti solerti nel foraggiare e godere di un business che di sicuro non langue…

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