Il caso Ilva e il capitale umano: la strategia degli asiatici e i diritti sociali dell’Occidente
La vicenda ILVA – Arcelor Mittal induce a ragionare sul capitale umano, a tutela dell’integrità lavorativa del nostro territorio.
La necessità di mutare profondamente il sistema dei rapporti tra azienda e lavoratori fu al centro del decreto 375 del 12 Febbraio 1944. Si voleva così introdurre quella socializzazione di cui parlava Gabriele D’Annunzio nella Carta del Carnaro.
Successivamente in Italia vi è stato lo sviluppo del sistema cooperativo, che però non è riuscito a creare grandi realtà industriali competitive a livello internazionale oltre la CMB.
In Germania vi è stata la Mitbestimmung ovvero un sistema di cogestione, con attribuzione ai lavoratori di un sistema reale di controllo dal basso. Un diritto di veto – per esempio nel caso importantissimo delle localizzazioni all’estero, delle chiusure di impianti, delle fusioni e delle acquisizioni aziendali – che ha mantenuto altissimi i livelli occupazionali tedeschi.
Nel terzo millennio c’è una contrapposizione tra capitalismo cinese, che ha quale origine ideale il dirigismo comunista e quello occidentale, ove l’accresciuto know how asiatico ed il ridotto costo del lavoro pongono un problema di competitività.
Ilva, la strategia del capitalismo asiatico
La strategia del capitalismo asiatico è chiara: il dirigismo economico consente grandi utili, che si investono in acquisizioni di capitale di aziende in crisi, quali l’ILVA. Non al fine di risollevarle, ma in primis di carpirne i segreti aziendali e poi di destabilizzare l’economia del territorio.
Attraverso la logica dell’eliminazione dei cosiddetti esuberi si creano innanzitutto fasce di povertà territoriali che rendono psicologicamente accettabile il minor costo del lavoro nelle nazioni asiatiche, che così si sottraggono all’accusa di essere sfruttatrici di mano d’opera.
La riduzione del personale rende poi politicamente più accettabile la chiusura dell’unità lavorativa e, quindi, l’eliminazione del concorrente occidentale.
La proprietà privata, frutto di lavoro e risparmio, deve essere garantita, ma quando il sistema capitalistico si trasforma in entità disgregatrice della personalità altrui, sfruttandone il lavoro, se vuole salvare se stesso deve fare qualcosa.
Ove non si voglia ricorrere a formule che, essendo state ipotizzate dallo stato fascista, sono ritenute politicamente non percorribili, occorre trovare nell’evoluzione giuridica altri modelli.
Il capitale umano può rivoluzionare il modello economico
Il diritto societario ha introdotto nel sistema capitalistico il capitale umano.
Orbene, lì ove il diritto societario si evolvesse, considerando i contratti di lavoro un’attività dell’azienda, in quanto ne preservano la possibilità di produrre e di mantenere i livelli qualitativi, il modello economico capitalistico potrebbe subire una rivoluzione senza uno stravolgimento sociale che potrebbe affondarlo.
Ciò significherebbe che il licenziamento di un lavoratore, la sua morte o il suo pensionamento potrebbero continuare a costituire il beneficio della riduzione dei costi dei cosiddetti esuberi, ma, in contemporanea, si trasformerebbero in una perdita per l’azienda che, essendo costretta a ragionare in termini sociali, in luogo di cercare di delocalizzarsi oltre confine, sarebbe difesa da scalate distruttive ed avrebbe l’interesse politico a bloccare le merci prodotte in luoghi ove il rapporto capitale / lavoro non è improntato sui medesimi valori etici.
Allora sarebbero gli imprenditori ad invocare quei dazi doganali che Donald Trump utilizza per salvare l’economia statunitense, che diverrebbero barriere doganali etiche lì ove l’Europa si accordasse per proteggere quello stile di vita europeo che il neo Presidente, Ursula von der Leyen, ha chiarito essere un modello etico e non una forma di razzismo.
E che sia necessario un capitalismo sociale non lo dicono nel mondo le formazioni di sinistra, ma, ad esempio, il competitor di Donald Trump alle primarie repubblicane negli USA, l’anticomunista di origini cubane, Marco Rubio.
Romolo Reboa