Uccise Stefano Leo, la difesa vuole far passare per pazzo il “povero” Mechaquat

17 Lug 2019 14:43 - di Viola Longo

Vogliono farlo passare per pazzo. O, per dirla con i termini tecnici, «parzialmente incapace di intendere e di volere». È questa, infatti, la conclusione del professor Enzo Giovanni Bosco, il perito di parte nominato dalla difesa di Said Mechaquat, il 27enne marocchino che la mattina del 23 febbraio uccise a Torino Stefano Leo. Stefano «sembrava felice» mentre passeggiava ai Murazzi e per questo Mechaquat decise di accoltellarlo alla gola. Perché voleva «uccidere un italiano felice», confessò l’assassino, che, come emerse poi, avrebbe dovuto essere in carcere per una condanna per maltrattamenti all’ex compagna e al figlio.

Mechaquat “vittima del sistema”?

Nella relazione dell’esperto ora, però, si vuol far passare Mechaquat come una povera vittima del sistema, un uomo fragile di mente e provato da una triste vicenda familiare. Come riportato dal Corriere della Sera, Mechaquat avrebbe riferito al professor Bosco di aver ucciso Stefano per «punire la città di Torino», che per il tramite degli assistenti sociali lo teneva lontano dal figlio. Il marocchino, inoltre, avrebbe riferito di essersi smarrito dopo la perdita del lavoro e della casa. «Ho fatto uso di hashish per molto tempo, ho provato anche la cocaina. Ma ho smesso quando mi sono reso conto che gli assistenti sociali non mi avrebbero permesso di vedere mio figlio», avrebbe detto allo psichiatra, secondo quanto riferito ancora dal Corsera.

La condanna per maltrattamenti

Insomma, secondo questa chiave, quando accoltellò a freddo Stefano Leo, Machaquat sarebbe stato solo un uomo sconvolto. Ma la cronaca racconta un’altra storia. Ovvero la storia di un uomo conosciuto e condannato per le violenze che aveva già perpetrato. E che non si erano fermate neanche di fronte a quel figlio che ora viene utilizzato per presentarlo con un volto amorevole e umano. I resoconti successivi alla sua costituzione davanti alla polizia, avvenuta oltre un mese dopo il delitto, fecero emergere come i maltrattamenti non prevedessero la condizionale perché avevano coinvolto anche il bambino. Mechaquat inoltre aveva anche dei precedenti: da minorenne aveva compiuto una rapina, per la quale aveva ottenuto il perdono giudiziale in virtù dell’età, e da maggiorenne si era macchiato di resistenza a pubblico ufficiale, patteggiando poi una pena di 10 mesi. La stessa perdita dell’impiego, infine, secondo quanto riferito dalla sua ex datrice di lavoro, era stata dettata dai suoi comportamenti: «Era diventato violento, l’ho denunciato più volte», spiegò la donna.

La parola ai pm

Ora la parola passa ai pm Enzo Bucarelli e Ciro Santoriello. Prima di chiudere l’inchiesta dovranno decidere se disporre a loro volta una perizia sul marocchino, il cui caso finora non ha fatto altro che fornire elementi sconcertanti sul funzionamento della giustizia italiana. E su come un condannato per maltrattamenti, nonostante le prescrizioni diverse, possa restare libero, uccidere un ragazzo solo perché è «un italiano felice» e poi magari riuscire a cavarsela con poco perché «parzialmente incapace di intendere e di volere».

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