Feltrinelli, la bufala della morte misteriosa. «Morì strattonando le micce»

26 Set 2018 22:27 - di Paolo Lami

Parlano (e scrivono) ancora di “morte misteriosa“. Vagheggiano di un “assassinio di Stato“. Tirano in ballo Gladio, i cosiddetti “Servizi deviati” e la destra, come si fa quando non si sa chi accusare e si cerca comunque un colpevole a tutti i costi spacciando aria fritta per verità.
Perfino l’ex-moglie Inge, venuta a mancare cinque giorni fa, continuava a insistere: «La sua morte – si duoleva alimentando una certa visione retorica e pseuderoica che tanto piace ai nipotini orfani del Che Guevara de ‘noantri – resta uno dei grandi misteri italiani». Addirittura. Fossero questi i misteri italiani dormiremo tutti sonni tranquilli.
L’ultima intervista alla “vedova” è stata rispolverata, è proprio il caso di dirlo, qualche giorno fa dal Corriere in occasione della morte di Inge Feltrinelli. La solita nenia: «Certo non è stato un incidente. Fu un delitto politico. Giangiacomo fu assassinato; anche se non so da chi. Era un uomo scomodo. Troppo scomodo, troppo libero, troppo ricco; troppo tutto. Era tenuto d’occhio da cinque servizi segreti, compresi il Mossad e la Cia. E ovviamente quelli italiani. Forse sono stati loro. Lui sapeva di Gladio e dei loro depositi di esplosivi. Per difendersi da Gladio fondò i Gap, reclutando ex-partigiani e giovani rivoluzionari. Temeva un golpe di destra; e non era una paura immaginaria».

Ma se c’è una morte che di misterioso non ha proprio nulla, come nulla ha di eroico, è quella di Giangiacomo “Giangi” Feltrinelli, il riccone miliardario che giocava a fare il terrorista come da bambini si gioca a guardie e ladri o al medico e paziente. E che saltò in aria per imperizia il 14 marzo 1972 – checché ne continuino a dire i suoi ideologizzati estimatori – dopo aver strattonato i cavi, troppo corti, delle varie cariche che aveva già piazzato su un traliccio mentre stava bellamente seduto sull’esplosivo già innescato.

Gli articoli elegiaci dei soliti giornaloni che hanno celebrato con grande sfarzo di aggettivazioni, il giorno della sua morte, Inge Feltrinelli, grondano ampollosità e magniloquenza riesumando la bufala – ah, già, oggi si chiama fake news, aggiorniamoci – della morte “misteriosa” del mancato Che italiano. «Ha lasciato un segno nella nostra storia recente – lo glorifica in maniera un po’ tragicomica un giornale cantandogli il Te Deum – non solo perché fondatore della nota Casa Editrice Feltrinelli, ma anche come attivista politico capace di lavorare nella clandestinità durante gli anni di piombo». Chissà che significa «capace di lavorare nella clandestinità» e se, su un curriculum, quella “qualità” sarebbe valutata con un occhio di riguardo da un qualsisi direttore del personale.

Non solo non c’è nulla di misterioso nella morte del compagno “Osvaldo” ma è altrettanto certo che Feltrinelli era predestinato a fare la fine che fece vista tutta la catena di errori grossolani, di ingenuità, di pressapochismo che aveva inanellato nella pasticciosa organizzazione dell’attentato al traliccio di Segrate, attentato che, nella sua progettualità, avrebbe dovuto lasciare senza luce Milano mentre altri nuclei terroristici agivano protetti dal buio.

Danilo Coppe, una laurea in Scienze Criminologiche e della Sicurezza, perito di diverse Procure italiane, geominerario esplosivista, esperto di blasting engineering con oltre 700 interventi di demolizione controllata, professore a contratto nel Master di Analisi chimiche forensi per l’Università di Bologna, non solo ha avuto l’opportunità di studiare a fondo tutto il fascicolo processuale relativo alla morte di Giangiacomo Feltrinelli ma, nell’estate del 2004, in collaborazione con l’Istituto Ricerche Esplosivistiche, effettuò una serie di prove sperimentali attraverso le quali riuscì a determinare la quantità di esplosivo che ha portato alla morte il riccone-terroristatra i 500 e i 1000 grammi di Dinamon. Una quantità molto limitata e assolutamente inadatta per far crollare il traliccio in metallo.
Non solo.
Neanche il tipo di esplosivo era adatto a quello scopo.
«Oltre all’amatolo di tipo Dinamon, il “compagno Osvaldo” disponeva anche di esplosivo Nitrogel2 che fu trovato nel suo covo di via Subiaco – ricorda Coppe – Ma a Segrate ha portato con sé l’esplosivo sbagliato. Pur disponendo anche del Nitrogel, ha voluto usare il Dinamol, esplosivo pulverulento che, contro i metalli, è poco “redditizio”. Infatti, il Nitrogel ha una velocità di detonazione maggiore rispetto all’amatolo».

Feltrinelli aveva piazzato cinque cariche esplosive sui punti nodali del traliccio. E si era messo a cavalcioni di una delle cariche, quella centrale, che si trovava sul longherone orizzontale del traliccio.
Nel momento dell’esplosione effettivamente quel longherone di metallo venne tranciato «ma solo perché, seduto sulla carica che si trovava sul longherone, Feltrinelli aveva creato un  effetto “intasamento” con la sua gamba poggiata sull’esplosivo».

Già questi primi aspetti dimostrano la maldestra velleità terroristica di Feltrinelli. Ma c’è dell’altro.

Feltrinelli, che, ricorda Coppe, «aveva frequentato i partigiani nel periodo 1943-1945» e la cui casa editrice aveva rieditato, nel 1969 “Il sangue dei leoni“, un manuale tecnico militare di guerriglia armata e sabotaggio utilizzato anche dalle Brigate Rosse che lo consideravano un testo basilare per la preparazione di attentati poiché spiegava nel dettaglio come come costruire da sé gli esplosivi, trascorreva le sue serate a costruire detonatori elettrici trasformando quelli a fuoco o creando timer con orologi da polso. La sua era più una “libidine terroristica” che una vera e propria “professionalità sabotatrice”». E seguendo questa logica andò, ovviamente, incontro alla morte aggiungendo errore ad errore.

«Oggi i manuali degli anarchici – rivela l’esperto di esplosivi – insegnano a preparare temporizzatori di breve durata, con sigarette, fiammiferi, timer o vecchie sveglie. Ma fino agli anni Sessanta si privilegiava lavorare sul sicuro utilizzando detonatori elettrici già pronti». Esattamente quello che non fece Feltrinelli.
«In definitiva, osserva Coppe, «Feltrinelli ha preferito cercare strade complicate, dimenticando l’esistenza di sistemi elementari e “collaudati” che non lasciavano spazio a imprevisti», quali quelli che, poi, effettivamente, accaddero portandolo alla morte.

«Sia il Dinamon sia il Nitrogel erano commercializzati dal Consorzio Fabbricanti Dinamiti, che riforniva di esplosivi e detonatori tutta l’Italia. I detonatori elettrici erano molto diffusi. Perché – si chiede Coppe – allora fabbricarseli utilizzando il filamento di una mini-lampadina, quando il fornitore che aveva procurato a Feltrinelli il Nitrogel avrebbe potuto agevolmente vendergli anche gli inneschi elettrici?»
Rompere il vetro di una mini-lampadina, salvaguardando il filamento, è già di per sé operazione certosina. Infilare il filamento nella polvere nera sperando che non si rompa è una sfida alla sorte. Trasportare il manufatto determina un ulteriore rischio di interruzione del filamento.

In definitiva Feltrinelli fece tutto ciò che non andava assolutamente fatto nella preparazione dell’attentato con l’esplosivo. Compreso il fatto di utilizzare detonatori elettrici in prossimità dei tralicci dell’alta tensione e in una giornata umida qual’era quel 14 marzo 1972.

«I detonatori elettrici hanno una microresistenza che, se sollecitata da una certa tensione, si arroventa, provocando l’accensione di una testina di materiale infiammabile a contatto con la carica esplosiva del detonatore – chiarisce il geominerario esplosivista Coppe – La corrente può passare attraverso fili elettrici oppure anche attraverso l’aria. I campi elettromagnetici sono indotti, nell’aria, da un temporale, da vento forte e aria calda, dal passaggio di forti correnti elettriche in grandi conduttori, come i cavi dell’alta tensione. Un elemento peggiorativo per la propagazione dei campi elettromagnetici nell’atmosfera è rappresentato dall’umidità e dalla ionizzazione dell’aria: il 15 marzo 1972 l’aria era discretamente umida. Feltrinelli, quindi, si è esposto a un rischio anche solo avvicinandosi al traliccio». Ma non è stato questo il solo errore.

Il miliardario terrorista si era fissato cn l’utilizzo degli orologi da polso Lucerna per l’innesco, lo stesso orologio che era stato usato in un altro attentato,  nel 1970, da una coppia di terroristi – lei milanese, così come la provenienza dell’esplosivo, lui greco-cipriota – morti entrambi per il malfunzionamento dell’ordigno che avrebbe dovuto colpire l’ambasciata statunitense ad Atene. La cosa avrebbe dovuto suggerire cautela a Feltrinelli che si baloccava giocando al piccolo chimico con gli esplosivi e quegli orologi Lucerna o i Logan. Ma, come si è visto, il miliardario non diede peso a quel precedente, preso com’era a emulare le gesta “gloriose” degli altri terroristi.

«Una sveglia comprata in un grande magazzino sarebbe costata meno di quegli orologi da polso e avrebbe richiesto meno fatica – spiega l’esperto Danilo  Coppe – Per far passare il perno nei meccanismi dell’orologio da polso occorreva un lavoro da miniaturista. Con una sveglia comune, invece, il perno avrebbe potuto avere anche lo spessore di un dito».

Ma c’era, appunto, in Feltrinelli questa sorta di “libidine terroristica” nella preparazione dell’ordigno, una ritualità che doveva, in qualche maniera rifarsi ai compagni terroristi sparsi in giro per il mondo e dare un senso al tutto con un minuzioso e quanto più complicato lavoro artigianale fin dal momento in cui con un chiodo arroventato bucava il vetrino in plastica che proteggeva il quadrante per poi sfilare la lancetta dei minuti e lasciare quella delle ore. E qui la questione diventò un punto di vita o di morte.

Questo timer, ottenuto con l’orologio da polso e saldato ai contatti con lo stagno, «era un oggetto tanto artigianale e precario – spiega Coppe – che, dopo le innumerevoli sollecitazioni subite nel collocarlo, precariamente appeso a un traliccio, di notte, non poteva far altro che chiudere all’improvviso il circuito e trasmettere corrente all’innesco esplodendo». Come effettivamente accadde.

Un vero esperto di esplosivi prima piazza le cariche esplosive, poi l’eventuale miccia detonante, quindi tira i fili di collegamento, posiziona l’innesco e, solo a quel punto, con la massima prudenza, crea i collegamenti e piazza il timer. Esattamente il contrario di quello che fece Feltrinelli. Che «si è ritrovato, di notte, a cavalcioni di un traliccio – ricostruisce Coppe – con la carica principale nel posto sbagliato e con una selva di micce detonanti e cavi elettrici a penzoloni, nonché un timer innescato in trazione e sballottato».

Il riccone-terrorista ha cercato di connettere i cavi, troppo corti, che si trovavano sulle cinque cariche posizionate sul traliccio. Quei colpi ripetuti hanno, evidentemente, fatto ruotare la lancetta delle ore dell’orologio da polso Lucerna che doveva funzionare da innesco e che non aveva più la solidità sul perno avendo tolto la lancetta dei minuti con cui era solidale. Così Feltrinelli, senza rendersene conto, ha chiuso il circuito trasmettendo corrente all’innesco e facendo esplodere la carica su cui era a cavalcioni. La gamba che poggiava sul pacco di esplosivo la ritrovarono dieci metri più in là, maciullata. Altroché mistero. Altroché Gladio. Altroché Servizi deviati.

Va ricordato anche, a chi continua a sostenere l’insostenibile teorema di una morte misteriosa, che le Brigate rosse, come facevano spesso, condussero una controinchiesta interna sul decesso di Feltrinelli sotto al traliccio di Segrate. E conclusero che, effettivamente, «Osvaldo non è una vittima, ma un rivoluzionario caduto combattendo. Egli era impegnato in una operazione di sabotaggio di tralicci dell’alta tensione che doveva provocare un black-out in una vasta zona di Milano; al fine di garantire una migliore operatività a nuclei impegnati nell’attacco a diversi obiettivi. Inoltre il black-out avrebbe assicurato una moltiplicazione degli effetti delle iniziative di propaganda armata. Fu un errore tecnico da lui stesso commesso, e cioè la scelta e l’utilizzo di orologi di bassa affidabilità trasformati in timers, sottovalutando gli inconvenienti di sicurezza, a determinare l’incidente mortale e il conseguente fallimento di tutta l’operazione».
Più chiaro di così.

Le Brigate Rosse interrogarono, registrandone le parole su un nastro poi ritrovato in un covo, Ernesto Grassi, nome di battaglia “Gunter”, membro dei Gap di Feltrinelli, il quale raccontò ai brigatisti come erano andate effettivamente le cose: «All’inizio Osvaldo ha i candelotti di dinamite (della carica che serviva a far saltare il longherone centrale) in mezzo alle gambe… Si trova impacciato nella posizione, impreca. Sposta i candelotti, probabilmente sotto la gamba sinistra e, seduto con i candelotti sotto la gamba, in modo che li tiene fermi, sembra che prepari l’innesco, cioè il congegno di scoppio. È in questo momento che quello a mezz’aria sul traliccio sente uno scoppio fortissimo. Guarda verso l’alto e non vede nulla. Guarda verso il basso e vede Osvaldo a terra, rotolante. La sua impressione immediata è che abbia perso entrambe le gambe. Va da lui immediatamente e gli dice: “Osvaldo, Osvaldo…”. Non c’è… è scoppiato…».

Un gruppo di intellettuali, capeggiati da Camilla Cederna – negli anni ’70 c’era sempre un gruppetto di intellettuali in servizio permanente effettivo pronti a strillare come galline spennate contro questo o a favore di quello prestando la voce e la faccia per le solite battaglie di retroguardia che fa ancora oggi la sinistra – si spinse a sostenere, in un comunicato, che Giangiacomo Feltrinelli era stato assassinato. Puntarono il dito contro la destra, il potere politico, il governo, il capitalismo italiano. Insomma le solite fregnacce. I dirigenti comunisti se la presero, invece, con la Cia. Solo molto tempo dopo L’Espresso dovrà mestamente ammettere che «a poche ore di distanza dalla morte di Feltrinelli l’intellighenzia democratico-progressista e l’intera sinistra iniziarono un’operazione di rimozione radicale dei fatti, ritardando la nostra presa di coscienza della realtà». Un po’ come la questione delle “sedicenti Brigate Rosse” che poi tanto sedicenti non erano. Eppure qualcuno, ancora oggi, si ostina a non voler prendere coscienza della realtà. Feltrinelli era un terrorista. Perdipiù pasticcione. Su questo non ci piove.

 

 

Commenti

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  • Massimilianodi SaintJust 27 Settembre 2018

    Un traditore degenere della Borghesia come Che Guevara, medico argentino e come i 2 loro ispiratori Marx ed Hengel

  • Francesco Spanu 27 Settembre 2018

    Voleva fare della Sardegna, la Cuba del Mediterraneo, ma di Sardegna, non sapeva niente.

  • carlo 27 Settembre 2018

    Uno come Feltrinelli era solo un danno alla nazione poi che Guevara e stato fatto uccidere da Fidel castro perche Fidel e sempre stato una spia della CIA americana

  • Mauro 27 Settembre 2018

    Un cretino che è finito da cretino; Invece di aiutare la classe proletaria o operaia minava la democrazia.

  • Pino1° 27 Settembre 2018

    La freschezza narrativa dell’articolo mi ha riportato ‘armi e bagagli’ per restare in tema, al periodo. Riportando a mente l’italia bombarola nei bar altoatesini, esplosivo in qualche stufa, l’invio punitivo
    di una parte della ‘Folgore’ sul confine… ! ora? doppio passaporto ? noo ! dimenticare ? noo mai ! Grazie.

  • roberto d elia 26 Settembre 2018

    un c****** ricco che giocava a far il che guevara della malpensa,,,