Fragalà, una perizia conferma: zoppo quel killer ripreso dalle telecamere (video)
Un ex-boss mafioso di Vallelunga Pratameno e, oggi, collaboratore di giustizia, un professore universitario esperto di accertamenti biometrici e un maggiore dei carabinieri di Palermo. Si addentra nei dettagli delle indagini svolte e degli accertamenti compiuti, confermando l’impostazione della Procura di Palermo, il processo per l’omicidio del parlamentare di An e avvocato penalista Enzo Fragalà, assassinato da Cosa Nostra, a colpi di bastone, il 23 febbraio 2010.
Di fronte ai giudici della Prima Sezione della Corte d’Assise di Palermo presieduta da Sergio Gulotta, l’ex-uomo d’onore Ciro Vara, oggi passato dall’altra parte della barricata, ha spiegato in aula cosa lo indusse, a chiedere ai magistrati di essere ascoltato dopo l’agguato mortale a Enzo Fragalà.
Vara ebbe modo di conoscere ed incontrare Fragalà che, in qualità di legale di Salvatore Longo, uomo d’onore di Cammarata, lo controinterrogò nel corso del procedimento sull’omicidio del piccolo Di Matteo, sciolto nell’acido.
Ricorda oggi l’ex-boss divenuto collaboratore di giustizia, confermando quanto raccontato anche da altri testimoni, che «c’erano uomini di Cosa nostra che ce l’avevano con» Fragalà perché il penalista «andava in carcere a dare speranza ai detenuti, parlava di fare alcune leggi anche in favore di chi, dopo Cosa nostra, collaborava». Prima di Vara altri ex-mafiosi hanno raccontato in aula che Cosa Nostra considerava Fragalà uno sbirro anche perché suggeriva ai suoi clienti, nell’ambito di una strategia difensiva efficace, di aprirsi ai magistrati. Cosa che ha spinto la mafia a vendicarsi.
In particolare Vara sente parlare, durante l’ora d’aria, nel carcere di Trapani dove si trova recluso, due mafiosi di Castellammare del Golfo, Nino Boscolo e Antonino Valenti, quest’ultimo cliente proprio di Fragalà, del fatto che il penalista e parlamentare di An «andava in carcere a parlare di revisione di processi e altro», ma, poi, «non si era fatto più vedere».
Dopo la testimonianza in aula di Vara è stata la volta del professor Giuseppe Mastronardi, Ordinario di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni presso il Politecnico di Bari ed esperto di biometria, chiamato dai pm Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli a esaminare i fotogrammi delle due telecamere del negozio Mail Boxes, in via Nicolò Turrisi a Palermo, dove è stato colpito a morte Fragalà.
Mastronardi ha spiegato in aula come ha proceduto per esaminare le immagini delle telecamere che riprendono, prima e dopo l’agguato, transitare in quel tratto di strada, due dei sei mafiosi oggi alla sbarra per l’omicidio, Antonino Siragusa e Salvatore Ingrassia.
«Le immagini sono abbastanza nitide ma notturne, era necessario aumentare la luminosità. Il metodo usato – spiega il docente barese – è assolutamente oggettivo. Ciò che feci all’epoca fu procedere con una sovrapposizione, c’erano perfette compatibilità in entrambi i casi».
Mastronardi ricostruisce che uno dei due mafiosi ripreso dalle telecamere del Mail Boxes ha lo «stesso atteggiamento claudicante» di Antonino Siragusa, come ha confermato il maggiore dei carabinieri, Dario Ferrara, che ha svolto le indagini sul gruppo di fuoco mafioso. E che seppure «non si distingue il taglio degli occhi, per esempio, o quello delle sopracciglia» perché le immagini sono «parecchio distanti», pur tuttavia è evidente la «compatibilità della postura addominale», «una discreta analogia anche dal punto di vista fisiognomico» e «un analogo profilo dell’attaccatura dei capelli e di perfetta coincidenza nelle altezze».
Per quanto riguarda, invece, l’audizione del maggiore dei carabinieri Gianluigi Marmora, l’investigatore chiarisce meglio il contesto mafioso in cui è stato pianificato, progettato ed eseguito l’omicidio Fragalà e i rapporti, per esempio, fra il pentito Francesco Chiarello, le cui dichiarazioni, riscontrate, sono alla base, assieme ad altri elementi, del castello accusatorio della Procura, e alcuni dei personaggi oggi alla sbarra, fra cui Antonino Abbate spiegando come, effettivamente, il collaboratore di giustizia sia stato addentro ai clan coinvolti nell’agguato al parlamentare di An, quelli di Pagliarelli e di Porta Nuova.
Le stesse vicende di estorsioni, di traffici di droga, di rapine che racconta, da un altro punto di vita, un altro pentito, Salvatore Bonomolo, ex-esponente apicale della famiglia di Palermo centro, testimone del processo Fragalà e cugino del reggente di Porta Nuova, Agostino Badalamenti.
Anche Bonomolo sa molto dell’ambiente in cui è stato deciso e compiuto l’agguato a Fragalà. Arrestato nell’isola Margherita, di fronte al Venezuala, dove ha trascorso una lunga latitanza dopo essere sfuggito a una retata, ha raccontato agli investigatori, per certificare la sua decisione di collaborare e dimostrare la sua genuinità, che il giorno del funerale del cugino Agostino Badalamenti, morto nel 2005, mise nella bara un’arma e un pacchetto di sigarette. Esumata la salma di Agostino Badalamenti nel cimitero di Santa Maria di Gesù, nell’estate del 2017, rivela in aula il maggiore Marmora, effettivamente fu ritrovata, in una busta di stoffa, una pistola a tamburo di fabbricazione italiana.