“Migranti”, “kamikaze”, “psicosi”: povero giornalismo italiano, che fine

20 Mar 2017 15:08 - di Antonio Pannullo

I lettori più attenti si saranno certamente accorti, tra le altre varie mancanze, che ormai i giornali utilizzano tranquillamente dei termini assolutamente sbagliati e fuorvianti, come “migranti”, per definire i clandestini, “kamikaze”, usato come sinonimo di terrorista suicida, “psicosi”, per indicare una fobia di qualche tipo. La cosa grave è che ormai tutti questi termini, profondamente errati, sono entrati nell’uso comune, non solo dei giornali, ma anche delle istituzioni, che invece dovrebbero conservare un profilo più corretto e onesto. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, questi termini sono entrati nell’uso comune per la pigrizia dei giornalisti, per ignoranza o per scarsa voglia di documentarsi, e le voci isolate, sempre più flebili, che talvolta hanno fatto notare  l’errore, sono rimaste inascoltate. Molto più conodo e rapido utilizzare termini che tutti possano comprendere. Certo, ma così si ingenerano errori capitali. L’unico caso forse in malafede, è quello relativo alla parola “migranti” in luogo di clandestini, immigrati irregolari. “Migranti” infatti ha un suono evocativo, nobile, c’è pure l’associazione benefica quasi omonima, ricorda le immagini bibliche dei popoli che migravano a migliaia perché perseguitati da orde feroci, o perché andavano a svolgere una qualche nobile missione spirituale o religiosa. Questo participio presente, introdotto surretiziamente ma sistematicamente da giornalisti, associazioni, volontari e quant’altro, ha in qualche modo cambiato la percezione degli italiani verso un fenomeno che in realtà è un bieco business in cui girano tantissimi soldi sulla pelle di poveri disgraziati. In tutti i Paesi del mondo, chiunque tenti di entrare senza documenti e non dai canali ufficiali, è considerato un clandestino, uno che ha violato la legge di quel Paese, verosimilmente per delinquere. In Italia, no: nel nostro Paese le forze armate sono arruolate come scafisti per andare a prendere sulle coste del Nordafrica tutti coloro che, pagando una tangente, desiderano venire in quello che considerano il Bengodi europeo. “Migranti” quindi ce li fa accettare un po’ di più, e dietro parole come tolleranza, accoglienza, integrazione, si celano loschi traffici corroborati da un sacco di soldi, una carità pelosa da parte di organizzazioni efficientissime anche nel marketing del traffico di esseri umani.

E i kamikaze non colpivano i civili…

Su “kamikaze” ci siamo già espressi: è pigrizia e in qualche caso ignoranza dei colleghi: è molto più breve kamikaze di terrorista suicida, ma sia chiaro che le due parole non sono affatto sinonimi. I kamikaze erano dei soldati volontari giapponesi, piloti, che sceglievano, in un tempo dove non c’erano droni, di sacrificarsi per la loro patria colpendo con aerei carichi di espolosivo obiettivi militari nemici. Il termine significa “vento divino”. Quelli che oggi si definiscono rozzamente kamikaze sui giornali sono invece civili, terroristi, che in tempo di pace colpiscono donne e bambini per puro fanatismo o perché dorgati e pagati. Non c’è alcuna analogia tra le due figure: Pietro Micca i primi, volgari terroristi i secondi. Infine, e questa è certo pigrizia mista a ignoranza, il termine “psicosi”. Psicosi della bomba, psicosi dell’aeroplano, psicosi della mucca pazza: come un qualsiasi psichiatra (psichiatra, non giornalista) potrà confermare, una psicosi è una grave malattia mentale e non una sempolice ansia, come sembra trasparire dai leggeri articoli che ne  parlano. Un uomo che ha la psicosi dell’aeroplano, è uno che crede di essere un aeroplano, non uno che ha paura di volare. La parola giusta è fobia, dal greco paura, che oltrettuto è anche più breve ed entra meglio nel titolo. Ma è certo che migranti, psicosi e kamikaze rende la nostra vita un po’ più tranquilla, soporifera, rispetto a clandestini e terroristi. E chi se ne importa se inganniamo i lettori.

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